Citazione dello splendido film di Paul Thomas Anderson, Magnolia: una non troppo insolita pioggia di rane (più comune in Kansas che a L.A. ma vabbè), fluttuanti nel cielo prima di smacellarsi a terra.

Più o meno quello che sta accadendo a Bologna, con il quasi simultaneo pulsante del sedile eiettabile spinto per far volare Meo Sacchetti e Sale Djordjevic, che continua a non essere capace di vincere, né giocando né allenando, nel capoluogo emiliano. Comprensibile l’allontanamento del coach serbo: a certi livelli si deve essere anche manager, curare l’interesse della società badando non solo al parquet. Non aver fatto giocare nemmeno 5 minuti a Belinelli, ritorno/acquisto top degli ultimi anni del basket italiano dopo tutto l’inchiostro, i byte spesi e addirittura l’intervista al Beli sulla RAI, è stato un errore strategico e manageriale che la proprietà non ha perdonato. Decisione non “di pancia” ma ugualmente improvvisa: non esiste sostituto ancora, la sola cosa certa è che tutti gli elementi serbi dello staff sono stati allontanati; quasi fuori anche Markovic, autoeliminatosi per aver twittato, in parole povere, che Zanetti e Baraldi non capiscono di basket. Il nuovo coach volteggia anche lui, al momento tra i nomi di (in ordine crescente di chances) Obradovic (Zeliko), Scariolo, Banchi. In che modo la NBA, che è il mio core-business all’interno di Baskettiamo, viene toccata dalle vicende bolognesi: proprio nella persona di Sergio Scariolo (già coach fortitudino per anni felicissimi e virtussino per esperienza infelice di meno di una settimana), assistant ai Raptors. Nonostante quel che avrete letto in giro, non è mai sparito dalla lista del personale dei dinosauri sul sito ufficiale della NBA: controllo ogni ora e lui è sempre lì, tra Griffin e Bjorkgren. Banchi è la soluzione più economica, Obradovic quella più impegnativa per tutti. Squadra, dirigenza, ambiente.

Anche nella NBA gli animi sono surriscaldati: James Harden non si è presentato al raduno dei Rockets, i quali, volendo apparire blandi, sono in realtà già corsi alle misure dure. Hanno affermato di voler fare di tutto per venire incontro al giocatore e per evitare di portare la cosa davanti al board della Players Union. Ovviamente Harden non ha appigli per motivare la sua mossa: essa dipende dal suo totale rifiuto di vestire la divisa dei Rockets, e dalla volontà di essere scambiato sul mercato. A questo proposito, c’è un gruppetto di giocatori che, pur non volendolo, sente prudergli il trolley. Non è un mistero il rapporto in fondo buono tra Harden e D’Antoni, neo assistant ai Nets. Una line-up Irving-Harden-Durant? Non impossibile, anche se pesantissima a livello salariale: 114 MM$$ costerebbero i 3. Per questo non vorrei essere nell’incertezza che ora attanaglia il futuro di Caris LeVert, Joe Harris, Spencer Dinwiddie, Taurean Prince e almeno uno tra Jarrett Allen e DeAndre Jordan: da oggi al 2024 la partenza di tutti loro libererebbe 210 MM$$ dal payroll dei Nets, rendendo meno assurda, salary-wise, la trade. Allo stato attuale far partire Harden ottenendo tra 4 e 8 giocatori (di cui almeno 2 di ottimo livello) più scelte, conviene tantissimo ai Rockets: che siano proprio i Nets gli interlocutori ideali? Intanto, oltre ad allenatori, giocatori, scioperi e trade, piovono anche lacrime: quelle di chi, essendone avversario, osserva il roster dei Lakers, la durata dei contratti, il loro monte stipendi assai leggero in proporzione al talento (la somma delle cifre garantite è inferiore ai 110 MM). Caratteristiche tipiche di una dinastia in ascesa: Rob Pelinka, in cattiva luce durante la gestione di Magic Johnson, liberatosi della zavorra del 32 corre per il titolo di GM del decennio 2020-29. Ha già vinto, in pratica.