Se pensavate che la stagione scorsa fosse stata strana, ancora non avevate pensato alla genesi di questa.

La Bubble aveva prevalso sul Covid, ma era stato un intervento di magia provvisoria avvenuto all’interno di una situazione nuova ed improvvisa, nell’arco di una stagione NBA iniziata normalmente. Questa 20/21, invece, è nata con metà dei giocatori inattivi all’agonismo da 10 mesi e l’altra metà reduci dalla pausa più breve della storia. Senza pre-season o quasi. La Bubble, inoltre, con i suoi 0 contagi, aveva protetto i giocatori e gli staff, li faceva giocare sempre negli stessi due campi, li faceva andare andare a piedi o in cart dalla camera al campo: la sofferenza peggiore era stata la lontananza dalla famiglia. Erano intervenuti anche fattori esterni come BLM a cementare vieppiù la tensione verso un solo obbiettivo. Ora, al contrario, pur rimanendo l’assenza (o quasi) di pubblico, i giocatori viaggiano, fanno su e giù da aerei e pullman, e, come tutti noi, cominciano ad essere stressati da undici mesi di contagi e conteggi vittime. Già in situazione normale, gli anni passati, mi rifiutavo di guardare le classifiche prima di due settimane di gare: a maggior ragione quest’anno la situazione ad oggi 5 gennaio deve essere considerata con un minimo di distanza. Tuttavia, essendo ad un decimo delle 72 gare previste, qualche piccolo bilancio si deve trarre. Confermato, prima di tutto, il pronostico dei grandi alti e bassi. Individuabili un paio di potenzialmente grandi tonfi, così come qualche inaspettato e parzialissimo successo.

Non stanno benissimo i Nets, prevedibilmente alla ricerca dell’equilibrio tra Kyrie e KD nonché colpiti dall’infortunio season-ending di Dinwiddie. Lasciano dubbi alcune scelte tattiche e di rotazioni da parte del coaching staff: è stato creato un altro dualismo Allen-Jordan, evitabile semplicemente lasciando al centro più giovane il posto in quintetto invece che donarlo a DAJ; tra l’altro la squadra non gioca meglio con Jordan e Allen è un bersaglio migliore e più mobile per gli assists di Irving dal pick and roll. Nemmeno per i Raptors le news sono buone. Dal Titolo vinto nel Giugno 2019, TOR ha perso Kawhi, Ibaka, Gasol. Ovvero tanto talento e tanta intelligenza nello stare in campo, e il loro leader maximo, il Subcomandante Lowry, sta cominciando a trovare i limiti del proprio invecchiamento inevitabile. Contando che, invece dei due centri spagnoli, ora devono fare gioco contando su Baynes e Len, appare evidente il deficit mostruoso in termini di Q.I. cestistico e duttilità tattica. Inoltre erano state probabilmente spese troppe e premature lodi per Pascal Siakam: da All-Star pre-Covid con 24 di media, 46% dal campo di cui 38% da 3, si è scesi ai 16 attuali con il 39 dal campo e il 28 da 3, passando per i 14 dei PO in the Bubble. Una caduta verticale e apparentemente non arrestabile, che trascina con sé i Raptors nonostante la magia di Fred VanVleet.

Chi si sta imponendo in maniera inaspettata sono, a mio modo di vedere, Cavs e Knicks. Stesso record: 4-3, e stesso traino offerto da due giocatori in particolare: Collin Sexton e Julius Randle. La guardia dei Cavs piacerà a tutti, anche a quelli che sono sempre sul viale del rimpianto per il basket pre-triple. Tira col 55% sia da 2 che da 3 (ma fino alla quinta gara aveva anche più del 60% da 2) e tira molto più da 2: di 18 tiri/gara solo 3 sono triple. Percentuali fantastiche e ottime stats in geenrale per questo ragazzo che al terzo anno di NBA pare aver svoltato: 26-2-4 con 1.5 recuperi a fronte di 1.8 palle perse, poche considerata la mole di possessi che gestisce. Molta più esperienza ha Julius Randle, già 7 anni nei pro nonostante 26 anni appena compiuti. Randle ha girato parecchio, già 3 diverse franchigie, e la sua caratteristica principale, oltre al talento, era la boccaccia. Fu mandato a Nola dai Lakers un secondo prima dell’arrivo di James: non aveva abbastanza età e controllo della lingua per andare bene a LBJ. Ora, alla seconda stagione a NY, è quello che fa tutto: 21-10-7 (e gli tolgo qualche decimale ovunque) tirando il 50% sia da 2 che da 3. Non sono che le prime due settimane di campagna, ma sia Cavs che Knicks, Sexton come Randle, hanno avuto rendimento molto superiore alle attese, giusto riconoscerlo. Così come è giusto riconoscere altri due fattori. Il primo è la folia di chi, evidentemente non vedendo l’ora, si era scagliato contro GS e in particolare Steph, pagando poco rispetto alla dinastia e al giocatore che, piaccia o no, hanno creato il basket odierno: GS in condizioni di perenne gestione infortuni è numero 5 ad Oves (4-3) e Curry nella 4 W dei suoi viaggia a 40-5-6 col 44% da 3. Infine, parziale per il vero, e nascostissimo MVP della NBA in questo inizio di stagione: Jaylen Brown. La guardia di Boston è l’architrave su cui poggiano i Celtics, sottoposti alla solita strage di pg (out fino a Gennaio Kemba, out anche Teague e Smart) e alla luna a volte stortina di Tatum. Oltre alle stats conta anche il come vengono ottenute, e Brown gioca al massimo di intensità ogni possesso, attacco E difesa: per lui 60% dal campo su 19 tiri, 42% da 3 e 67 da 2, 28-5-3 con 2 recuperi. Eccezionale.