I Golden State Warriors dal 2015 a oggi sono la prima vera Dinastia dai tempi dei Bulls di Jordan e Jackson.
Lo sono per consecutività: dal 2015 hanno mancato le Finals solo quando non erano tutti insieme (Bubble e anno seguente), hanno mancato l’Anello solo per la tuttora (anzi: sempre più) maleodorante squalifica data a Dray-G nel 2015 e per l’ecatombe del 2019 (primo legamento di Klay, Achille di Durant, Steph mezzo sciancato, Green in piedi per miracolo). I Bulls con Jordan non hanno mai mancato né Finals né Titolo. I Lakers di Kobe e Jackson hanno mancato le une e/o l’altro ANCHE CON Kobe e Shaq in campo, e gli Spurs di Popovich hanno passato 2, 4, 7 anni senza Finals o Titolo. Inoltre, da sovrani illuminati, tutti gli Warriors, la loro organizzazione, hanno mostrato come si costruiscono e mantengono le franchigie e le squadre.
E’ tutto cominciato con l’arrivo di Steve Kerr al posto di Mark Jackson, dopo che nel tempo l’attuale commentatore NBA aveva più volte mostrato di non intendere bene la grandezza di Steph (nel 2012 a MIL per Bogut doveva finire lui, non Monta Ellis: Steph “si salvò” solo perché i Bucks non gradirono le condizioni delle sue caviglie). Da quel momento solo successi, da subito, e solo enorme capacità di valorizzare, scovare, raddrizzare il talento. La mossa di ingaggiare Shaun Livingston, giocatore formidabile ma spezzato da un terribile infortunio, ricorda molto, per ruolo in campo e storia infermieristica, quella di Ron Harper ai Bulls; tante ne sono seguite, con mirabile equilibrio nel dosare rischio e competenza. Di quanto potessimo attenderci Otto Porter o Guantino, Wiggins o Jordan Poole con un Titolo NBA addosso abbiamo parlato ieri, ma anche i Guerrieri più famosi e attesi hanno storie particolari alle spalle. Dei 941 giorni senza gare di Klay non c’è quasi bisogno di parlare, se non che lui ancora dovrà lavorare per annullare tanta distanza dal Gioco, ma intanto ha vinto un altro Anello. Il feeling tra Kerr e Steph è evidente, ma penso che nessuno debba essere più grato al coach di Draymond Green. Non tanto per la capacità di vedere cosa poteva diventare quel buffo tweener da MSU, quanto per come allenatore e staff abbiano saputo gestire lungo 10 ANNI un tipo del genere. Green non è un bad-boy e (guardate il suo programma, sul serio) è persona intelligente e ironica, ma ogni volta che scende in campo diventa quello che tutti vediamo: rendimento pazzesco, vena chiusa. Immaginate, sul vostro posto di lavoro, cosa possa significare avere la responsabilità della vena di Draymond, ogni giorno, ogni gara, ogni trasferta. Qui il link dove potete trovare quanto siano state COSTRUITE NON COMPRATE sia GoldenState che Boston, e da quella sapienza partiamo per definire in cosa questa stagione memorabile ha segnato un cambiamento / l’inizio di un cambiamento per la NBA.
Sta tramontando l’era dei Grandi Egotici. Da molti anni, quasi due decenni, la NBA stava registrando un pericoloso sbilanciamento. Le rivendicazioni sacrosante di alcuni giocatori iconici quasi più fuori che dentro al campo (Rasheed Wallace, Chris Webber e tutta la posse dei Fab5 giunti nella NBA) avevano dato voce ai giocatori in un modo e verso obiettivi del tutto giusti, ma nel tempo il concetto di “personalità preminente” si era trasformato in una riedizione della frase del Marchese del Grillo (Io so’ io e voi…). Enorme potere è passato nelle mani di LBJ o KD, Westbrook o Harden o Kyrie, senza che, in molti casi, fossero poi guadagnate sul campo contropartite altrettanto grandi. Giocatori che si fanno beffe delle regole e sono ANCHE di fatto agenti di altri giocatori, giocatori che ingrassano e non giocano per rendersi insopportabili e andare a giocare (e non sempre a giocare…) solo dove e con chi vogliono loro, giocatori che affermano risolutamente di non aver bisogno di un allenatore per essere grandi e vincere: tutto questo stava rovinando la NBA, in parte lo ha fatto. Per fortuna c’è l’esempio di Steph, il leader meno tarpa-ali che possiate immaginare, un uomo del tutto votato al Gioco e al conseguimento della Vittoria, non delle luci personali. Ancora. Nel 2008 i Celtics hanno vinto un Anello (e poi ne han persi 2 nei due anni seguenti, ma è altra storia…) grazie a una mossa di mercato geniale e perfetta che portò a Boston KG e Ray Allen unendoli a PP e RR. Ottimo, fantastico, bel lavoro Danny AInge! Però, nel tempo, il concetto è stato travisato e fatto diventare l’unico standard per vincere: Era del Big3; ha portato a continue parabole ascesa/schianto, anche in questo caso non sempre sensate o vincenti, causando molte più devastazioni che Titoli. Anche questa epoca è stata fatta a pezzi dalla stagione 21/22, in cui le due finaliste, e anche la prima al termine della RS (PHO) rispondono in pieno al concetto di SQUADRA e di COSTRUZIONE.
Un altro dei concetti, l’ultimo per oggi, che questa stagione NBA ha consacrato è che la difesa è scontata: a certi livelli deve ritenersi per data, e dunque nonostante quel che i soliti profeti (fatto caso che non hanno mai meno di 65 anni e sono nostalgia senza visione?) si ostinano a sostenere, nel basket moderno si vince con l’attacco, con le percentuali e con la frequenza dei possessi. Secondo la tuttora valida Aurea Regola Peterson sulle Palle Perse, con 13 TO si perde: però, se si aumentano i possessi arrivando oltre i 100/gara, le 15 perse di GS in #6 sono molte meno delle 12 della AuRPPP; e non si tratta di “solo triple e pick and roll”, ma di sapienza tattica e cervello: non date ascolto ai nostalgici (sono una delle rovine del mondo).