Tre capitoletti che potrebbero farvi arrabbiare un po’. Almeno uno di essi.
HEAT. La news più importante è che i Miami Heat, dall’inizio della settimana, sono primi a Est. Ne hanno gran merito, ma hanno trovato molti complici: gli infortuni a ripetizione dei Bulls (LaVine e DMDR fuori brevemente, Lonzo e Caruso fino a inizio Marzo), la stagione bruttina dei Nets (infortunio a KD, Harden dimezzato, Irving anche) e quella attendista dei Bucks (hanno vinto l’Anello da terzi di Conference, che gli frega?). Resta il fatto che MIA è formazione completa, con gerarchie definite, ottimamente allenata, esperta e non nuova ad apparire alle Finals né a vincerle: lasciargli il fattore campo non è una grande idea per i rivali della Eastern. Sono rimasti primi anche dopo la L di stanotte in una gara incredibile, finita al TRIPLO overtime in quel di Toronto.
ANDREW WIGGINS. La ex Prima Scelta Assoluta 2014 pareva persa per gli alti livelli dopo le terribili stagioni nei terribili T’Wolves (di Minnie e dell’impronta nuova data alla franchigia da Anthony Edwards dovremo parlare prima o poi…); invece, approdato a GS, ha piano piano rivitalizzato la propria carriera. Passare dalle paludi allo M.I.T. del basket è la dimostrazione che anche lo sport è questione di cultura, e avere buoni maestri è fondamentale. Lontano dalla gente inutile che gli diceva che petaloso era giusto e che l’importante è sognare, Wiggins ha smesso di essere un ragazzo talentuoso e solare ed è diventato un uomo, ha posto sé stesso perennemente in palestra, ha trovato un ambiente sano e positivo per il quale ha accettato di venire a patti con certe sue convinzioni. Infatti, quando glielo hanno chiesto con una certa decisione, lui ha dato retta e si è vaccinato, ha giocato alla grande e ora si ritrova allo ASG. Lo ASG è la festa paesana della NBA, un baraccone che però resta molto importante a livello simbolico: per alcuni è scontato, per altri un punto d’arrivo, per Wiggins il punto da cui ripartire. Stanotte, poetic justice la chiamano, ha dato lui le spallate più grosse per battere i Nets del no-vax broccolino.
ANCHE BASTA. Nelle ore in cui si apprende del ritiro di Tom Brady, uno dei GOAT dello sport mondiale, l’equivalente NFL di Pelè, Jordan, Gretzky, Tomba, Federer, diventano ancora più stonati i comportamenti di certi campioni che nei prossimi 2-4 anni smetteranno di giocare. E sarà un bene. Sono come l’ospite del proverbio: anche quando si tratti di fratelli, migliori amici o genitori, dunque amatissimi, dopo un certo numero di notti cominciano a puzzare. Ormai è così. Si sente cattivo odore davanti alle scenette o pretese, davanti ai trattamenti di favore, i piccoli soprusi, le regole aggirate o ignorate. Di recente abbiamo visto/continuato a vedere le solite moine di LBJ, abbiamo visto CP3 che otteneva una revisione all’instant replay senza che al suo coach fosse addebitato il challenge e dunque la potenziale perdita di un TO. Abbiamo visto Miles Bridges beccarsi un tecnico per aver preso in giro Westbrook dopo avergli schiacciato in faccia, ma non è accaduto quando ha preso in giro Stephenson; abbiamo visto Melo far espellere due spettatori che semplicemente lo prendevano in giro senza coinvolgere la N-word (si sa, a Philadeplphia sono sempre piuttosto incarogniti, ma quei due erano appunto dilettanti per la media della città): immaginate possa accadere lo stesso quando prendono in giro Avery Bradley? Tutta questa roba, questa mini-casta che si sostiene a vicenda, che si è solidificata negli anni grazie a carriere di lunghezza non comune: anche basta. A maggior ragione ora che immensi giocatori, ingiustamente oscurati dal glittering delle primedonne, stanno venendo a meritata luce: Beal, DeRozan, Butler, altri. A maggior ragione ora che i giocatori che almeno apparentemente tengono più al Gioco che alla Legacy, più a giocare per il Gioco che per autoaffermarsi nel mondo, sono tanti, sono Stelle, sono enormemente più positivi da vedere giocare; cominciando da Steph, Giannis ed Embiid fino ai nuovi arrivi come Ja, Luka, Trae, LaMelo.