Continua il viaggio abbecedario nelle tante storie che hanno contrassegnato il Draft della NBA negli anni, a partire dall’ingresso di Bird e Magic.
Fuck. La four-letter-word, nella versione “f— me” fu pronunciata sottolabbra, ma notata da milioni di persone davanti agli schermi, alla Draft Night 2014 da Zach LaVine, quando il fuggitivo da UCLA (vedi lettera D), venne chiamato dai Minnesota Timberwolves. Il ragazzo sperava in altra destinazione. Ma quello era prima. Prima che LeBron decidesse di tornare a Cleveland, prima che i Cavs per avere Love lasciassero ai T’wolves Bennett e l’immaginifico Wiggins, prima che Minnesota diventasse una miniera di talento giovanissimo, prima che il nostro Zach, con ai piedi splendide scarpe argento con inserti di materiale vetroso a specchio, vincesse la gara delle schiacciate all’All Star Game con una prestazione che ha rinverdito i fasti di MJ e Nique.
Grant Hill. Non era pigro né sopravvalutato. E’ stato semplicemente sfortunato. Una delle sf più grandi della storia, talento prodigioso con QI cestistico da far invidia a Larry Bird. Figlio di Calvin Hill, running back della NFL che ebbe il suo prime con i Dallas Cowboys. Grant fu scelto dai Pistons nel 1994 dietro BigDog Robinson e Jason Kidd, fece onde altissime fin da rookie, e collezionò premi e statistiche da antologia, senza però mai superare, con Detroit, la soglia del primo turno ai playoffs. Nel 2000 arriva il momento: 28enne, nel pieno della carriera, approda agli Orlando Magic (Ben Wallace+Chuck Atkins nella contropartita): avrebbe dovuto dar vita alla coppia dei sogni insieme a T-Mac (un altro che agli infortuni ha sempre risposto presente). Era l’inizio di un periodo aureo. Errore: l’inizio di un incubo chiamato caviglie. 47 partite su 246 nei primi tre anni in Florida, nessuna nel 2004, perché, avendo deciso di operarsi durante la offseason 2003, Hill rischia di morire in ospedale per una infezione da stafilococco, che lo tiene una settimana in fin di vita e lo obbliga a 6 mesi di terapie antibiotiche. Nel mentre i Pistons, forti anche di Ben Wallace, vincevano l’Anello 2004. Giocò anche a Phoenix e ai Clippers, ora fa il commentatore TV.
Harper, Ron. Storia simile a quella di Grant Hill, ma più fortunata. Scelto al draft 1986 dai Cavaliers, numero 8 assoluto, in un draft prolifico per Cleveland che si assicurò (c’erano dubbi? Vedi lettera C) anche la prima scelta assoluta, spesa per Brad Daugherty. In una NBA che aveva già cominciato a conoscere MJ, apparve subito come una delle migliori alternative al prodotto dei Tar Heels. Finì la rookie season a 22.9 di media, secondo dopo Person al Rookie of the Year. Il suo soprannome era Hollywood, per la spettacolarità delle giocate. Purtroppo condivise con il lungo Brad il percorso di infortuni e anche la lunga serie di tentativi mai riusciti dei Cavs per arrivare al vertice. Il calvario fisico iniziò nell’ultima stagione in Ohio e proseguì le prime 2 ai Clippers (ancora: avevate dubbi?), lasciandogli giocare solo 74 partite su 246. Ebbe però una sorte benigna, che seppe procurarsi col duro lavoro per sempre rientrare dai malanni e con lo sforzo di mutare il proprio gioco da spettacolare ed atletico a intelligente e provvidenziale: fu uomo di primo piano nei Bulls di Jordan, la sua antica pietra di paragone. Ron terminò il suo percorso pro con 5 Titoli, 13.8 di media in carriera con 3.9 assists e 1.7 recuperi, e la patente di “giocatore fondamentale” da parte di MJ, non noto per la manica larga.
Italians. Gallo-il Mago-Beli-Datome sono nella NBA, ma prima la storia degli Italiani è stata ingrata, pur innervata da qualche lampo. Primo a suscitare interesse: Dino Meneghin, scelto dagli Hawks nel 1970, n.182 (allora erano 12 i giri di scelte). Dino non arrivò mai tra i pro, anche se a metà anni ’70 fu a una firma dai Knicks, e, se fosse nato in un momento adatto per trovarsi ora nella NBA, varrebbe almeno come Noah. Atlanta è ricorrente agli albori della italianità nella NBA: Binelli (1986 n. 40), Morandotti (1987 n.136) Magnifico (invitato alla Summer League del 1986) furono nel mirino della squadra della Georgia: allora gli Hawks erano allenati da Mike Fratello, grande conoscitore di basket europeo, ora allenatore dell’Ucraina, la cui FederBasket è guidata da Sasha Volkov (stella indimenticata anche a Reggio Calabria) che fu scelto, così come Sabonis e Tikhonenko, dai Falchi. Seguirono le fugaci esperienze di Vincenzino (non c’è bisogno del cognome) ai Raptors e di Stefano Rusconi. Il lungo di Varese e Treviso fu scelto nel 1990, n. 52 dai Suns, per i quali nel 1995-96 giocò in 7 partite e 30 minuti totali. Vincenzino nella medesima stagione giocò 30 partite, con lampi del proprio talento, ma la leggenda più bella riguarda la discussione del contratto con Isaiah Thomas: l’icona dei Pistons era GM dei Raptors e lo stipendio dell’Italiano fu giocato a suon di triple tirate da sempre più lontano. Alla fine? L’accordo per Vincenzo fu migliore rispetto alla cifra proposta da Isaiah…Resta da dire di Mancinelli, che dopo un’ottima Summer League con Portland non firmò il biennale in Oregon preferendo il triennale della Fortitudo.