Continuiamo, dalla J alla O, la piccola storia del Draft NBA in formato abbecedario.
Jordan, Michael Jeffrey. Si sa tutto di lui. La sua entrata recita: 1984, n.3. Il pupillo di Dean Smith è davvero il più grande, e il suo apporto alla crescita della Associazione è pari a quello di Bird e Magic. La scritta AIR girava sulle magliette per le strade di Pechino molto prima che i rapporti diplomatici Cina-USA fossero ristabiliti. Città per città, le case in cui non è mai entrato un paio di sue scarpe sono additate a memoria dai vicini. Fama è un concetto minimo rispetto allo status di questo giocatore che ha smesso molto presto di essere solo un giocatore.
Knicks. 2014-15, la stagione della vergogna per i NY Knicks. Votati al tanking più esasperato hanno offerto spettacoli oscillanti tra il penoso ed il patetico per tutta la stagione. Il loro atteggiamento manageriale, scelto da Phil Jackson alla scrivania e tradotto sul campo da coach D-Fish, storica emanazione di Phi-J sul parquet, si è potuto riassumere in: perdiamo più che possiamo. E’ stato talmente evidente e sgraziato che la NBA ha cominciato a pensare di cambiare il meccanismo della Lottery. La Associazione, però, per essere così grande e potente necessita anche di un po’ di fortuna, e per non smentirsi ne ha avuta: i Knicks sono usciti miseramente sconfitti dalla lotta statistica della Lotteria, finendo al quarto posto progressivo. No Okafor, no Towns….ahi ahi ahi.
Len Bias. Una perdita tragica. Il secondo Prescelto dopo MJ. Un giocatore mai arrivato su un parquet NBA, lasciando un vuoto inimmaginabile.
Manning, Danny. Forse leggermente sopravvalutato, ma anche lui rovinato dagli infortuni, dopo esser stato la Prima Scelta Assoluta al Draft 1988, per i…Los Angeles Clippers (vedi Portland alla lettera B). Figlio di giocatore poi allenatore, Ed Manning, quando ha smesso di giocare dopo 14 anni devastati dagli infortuni alle ginocchia, Danny ha dato sfogo a tutta la sua originalità diventando coach, di buon succcesso se è vero che attualmente guida la prestigiosa Wake Forest, ateneo che fornisce tantissimi giocatori alla NBA (Tim Duncan, CP3, Jeff Teague..). Per comprendere la gravità dei suoi problemi alle ginocchia si pensi che fu il primo giocatore nella storia a tornare a giocare dopo interventi ricostruttivi ai legamenti di entrambe le ginocchia. Un pioniere della chirurgia, ma nella veste di quello sdraiato sul tavolo.
No no no. All’Unversità io non ci vo’. Ora i giocatori per essere scelti devono avere alle spalle almeno un anno di college, il che ha dato il via alla pratica ormai comune di fare un anno e poi rendersi eligibili per il Draft, il famoso “one&done”. Si tratta di una regola recente, creata per tamponare il crescente numero di ragazzi che passavano pro direttamente dalla High School, e per non far cadere nel ridicolo i programmi NBA-Cares imperniati sullo stay-in-school e sull’importanza di una cultura di livello elevato. Non che fossero scarsi quelli che saltavano il college: LBJ, Kobe, KG, Amar’e Stoudemire, Shawn Kemp, Jermaine O’Neal, T-Mac, Dwight Howard, e in tempi molto antichi Moses Malon e Bill Willoughby. Il numero totale è 44: se non cambieranno le regole non aumenterà.
Oden, Greg. Talento fisico devastante, centro da Ohio U. scelto dai Blazers nel 2007 con la Prima Assoluta. Altro fulgido esempio, con Walton, Bowie, Brandon Roy, della potente maledizione che colpisce i Blazers quando si tratta di Draft. Salta tutta la sua prima stagione dopo un’operazione alla cartilagine del ginocchio sinistro, si infortuna alla sua prima uscita nel 2008, torna dopo due settimane e si fa male di nuovo. Finisce bene o male la stagione, inizia bene la sua seconda effettiva, ma si distrugge la rotula, e perde anche il 2009. Si deve operare alla cartilagine del ginocchio destro durante la convalescenza per la rotula, e perde tutto il 2010. 4 anni nella NBA, 82 partite totali. Salta il 2012 per cercare di rimettersi in forma. Torna, gioca a Miami, è di fatto un ex giocatore, si muove, poverino, con l’agilità di un tank britannico alla prima apparizione dei mezzi corazzati alla battaglia della Somme, 1916.
Polynice, Olden. Questo signore di m. 2,11, che giocava centro ed era di formazione americana ma nazionalità haitiana, iniziò la sua carriera pro in Italia nel 1986, a Rimini, allora sponsorizzata Hamby. Era arrivato in riviera per via di vicende legate alle regole iperdilettantistiche della NCAA (doveva iniziare il suo ultimo anno a Virginia, ancora fresca della reputazione di esser stata l’ateneo di Ralph Sampson), e di una certa turbolenza d’animo. In USA era visto come una sorta di Next Big Thing, pronosticato per essere un sicuro caporimbalzista NBA. Dopo l’anno rimininese fu scelto dai Bulls, e qui inizia la parte interessante della storia, quella che segnerà per sempre la sua carriera, pur onesta (13 anni a 8 pti e 7 rimb.). Olden venne chiamato da Chicago con il n.8 e fu immediatamente, senza nemmeno un sospiro di incertezza da parte di Seattle, scambiato con la scelta n.5 dei Sonics, probabilmente commissionata dai Bulls in virtù di un accordo pre-draft che coinvolse anche Denver e NY (i Knicks si beccarono Mark Jackson, non male). Chi era quella pedina di scambio? Si trattava di un mingherlino con la faccia lunga da un Ateneo mai sentito, Central Arkansas, e rispondeva al nome di Scottie Pippen. Capito, no? Fin dal 1985 (rimase fino ai primi anni 2K) il GM dei Bulls era tal Jerry Krause, esatto, proprio quello che vi ha fatto scambiare alla pari la vostra Lamborghini con la sua Prinz. Krause si ritirò poco dopo essersi reso conto di aver perso la magia: sua la chiamata di Eddie Curry (e la definizione di “prossimo Shaq”) con la 4’ assoluta nel 2001.