Dopo i primi due quarti con Il 2014 e il ruolo della scrittura (1°/4) e Il desiderio di essere come tutti (2°/4) è tempo di riprendere a giocare con il… terzo quarto: lo sport e il basket 

Tu affermi di essere diventato comunista il 22 Giugno 1974, quando Sparwasser segna il goal che segna la vittoria della Germania Est sulla Germania Ovest in una partita storica dei mondiali di calcio. Recentemente ho avuto modo di intervistare Federico Buffa, che ha parlato del calcio definendolo “un deodorante, un antibiotico, qualcosa che cambia uno stato precedente e che fa succedere cose che non potrebbero succedere se non esistesse”. Un evento sportivo può davvero cambiare il corso della vita di un individuo o, in casi estremi, di un’intera comunità?

«Diciamo che un evento sportivo entra nella vita di una persona e spesso anche nella vita di una comunità in maniera molto forte, anche perché lo sport, dal punto di vista “passivo”, come spettatore, è una catarsi, serve a sostituire altre cose. E mentre le sostituisce, diventa molto potente. Non ho una risposta su cosa realmente possa fare, però nel mio libro ci sono due episodi, sia quello che hai citato, sia quello sul basket e sullo scrivere di basket che determinano qualcosa in una persona. Dunque così come lo determina la vita, la vita pubblica, un film o un libro, sicuramente può farlo anche un evento sportivo».

Tu hai iniziato scrivendo di basket e provieni da una famiglia di noti cestofili. Qual è stato in passato il tuo rapporto con il basket, seguito o giocato, e qual è oggi, se ancora ne hai uno?

«Il mio rapporto con il basket in passato è stato totalizzante, nel senso che io giocavo, allenavo, scrivevo e soprattutto vivevo in una famiglia che aveva contribuito, o meglio fondato la Juvecaserta, perché i miei zii hanno fondato la Juvecaserta, mio padre e i miei zii sono stati dirigenti, giocatori, presidenti, anche nel femminile, allenatori. Mio fratello diceva che per noi il basket era una specie di servizio di leva, perché era una cosa talmente presente che nemmeno ci ponevamo il problema… Io a 4 o 5 anni vedevo lo spareggio Simmenthal-Ignis dei miei tempi come una cosa importantissima della mia esistenza. Io poi ho allenato tantissimo il minibasket, passavo le giornate in una palestra. E proprio per questo, quando poi sono andato via da Caserta, ho cercato un po’ di distacco. Per me è stata la fine di un periodo e quindi anche la fine di questo aspetto così totalizzante. Quando sono andato a Roma ancora scrivevo per un giornale di Caserta, Caserta Basket, e per Superbasket. Anzi, in qualche modo Superbasket mi manteneva… Poi però pian piano li ho abbandonati e adesso seguo ancora i risultati della Juvecaserta, qualche volta la vedo in tv, ma è difficile che segua ancora il basket come prima. Ho messo un po’ una distanza con questa cosa che nella mia vita è stata a volte un po’ troppo importante».

Anche non seguendo più tanto, hai sentore del movimento basket in Italia, che sta vivendo un momento non proprio esaltante? Scarsi risultati della nazionale, poco appeal sul pubblico, difficoltà economiche sempre più grandi per le società. Cosa si sta sbagliando?

«Questo lo conosco e lo riconosco. Stasera ho fatto tutto un discorso contro il passato (durante la presentazione del suo libro a Scrittori in Città a Cuneo, ndr), però il basket del passato secondo me era meglio di quello di ora. Ci sono stati giocatori, ad esempio Carlton Myers, che ha giocato fino a oltre quarant’anni e questa cosa qua in un’evoluzione positiva di uno sport non potrebbe valere. Carlton Myers a quarant’anni faceva 30 punti a partita, vuol dire che c’è qualcosa che non ha funzionato. Io credo che il basket sia un po’ peggiorato. E’ anche vero però che io ho vissuto gli anni in cui nel basket c’erano tanti soldi e questa è una cosa che è cambiata molto. Il fatto che le società soffrano problemi economici vuole dire meno gente che si appassiona, meno persone che vedono il miraggio del basket come qualcosa di percorribile».

E’ un po’ un cane che si morde la coda, no? E’ difficile comprendere quanto le difficoltà economiche siano generate da cattiva gestione o invece provochino difficoltà di gestione e il successivo disamore della gente…

«Sono un po’ entrambe le cose che si intrecciano. Non è bello dire che è così peggiorato, però un po’  mi pare di sì. Mi appassiona di meno anche quando vedo una partita, ma è vero anche che sono cambiato io. Non lo so, c’erano dei miti che adesso sembra non ci siano, ma forse nemmeno è vero in senso assoluto, magari non ci sono per me».

Si parla di basket anche nel tuo romanzo. In particolare mi ha colpito la tua riflessione sulla necessità di essere neutrali, non troppo “dentro” l’ambiente, per poter scrivere da giornalisti con indipendenza di giudizio. Ha espresso lo stesso concetto Flavio Tranquillo, altro gigante nel mondo del giornalismo sportivo, nel suo ultimo libro, in cui sostiene che il tifo nello sport non si concilia con il giornalismo. Un tifoso non potrà mai essere un buon giornalista sportivo?

«Ma non è proprio così, in realtà come dice Bobbio, che cito anche nel mio libro, non bisogna per forza essere neutrali per essere imparziali. Bisogna essere imparziali, poi si può essere anche tifosi. Il problema del tifoso è che pensa che se la sua squadra perde sarà colpa dell’arbitro o di altre circostanze esterne, mentre invece la forza di un giornalista è quella di riuscire ad avere un’oggettività dal punto di vista critico, anche nei confronti della squadra per cui fa il tifo. La cosa più bella anzi, che è anche quella che metto in piedi in altro campo, sulla sinistra, è proprio quella di occuparti dei difetti e dei problemi di quello che ami e non di quello che non ami. Secondo me si può essere tifosi e giornalisti, però si deve avere la forza dell’imparzialità».

Il tuo cuore batte ancora per una squadra di basket o il distacco è stato totale?

«Beh, certo, la Juvecaserta! La seguo ancora, magari solo informandomi sui risultati. Quest’anno è iniziato malissimo, questo lo so. Però appunto, la seguo un po’ a distanza. Qualche volta vedo qualche partita in tv, ma finisce lì».

A vederla dal vivo quindi non vai mai?

«Quest’anno ho promesso a mia figlia di portarla al Palamaggiò, perché lei ci vorrebbe andare. Devo dire però che le questioni sono anche più profonde. Ci sono delle cose nella vita che sono state talmente importanti che poi uno fa fatica ad affrontarle di nuovo con leggerezza. Il Palamaggiò per me è stato un luogo mitico di tutto un periodo e per questo non ho tanta voglia di tornarci. Alle volte, in maniera forse anche un po’ fragile, uno mette anche delle barriere rispetto a cose che hanno avuto tanta importanza. L’altro giorno ad esempio sono andato a Napoli nella mia facoltà, non ci entravo da quando mi sono laureato, non c’ero mai più andato… Ho un po’ l’idea, a proposito del presente, che le cose del passato non devi tirartele dietro tutte. Il basket per me è stato talmente tanto importante che dopo io non sono più riuscito a viverlo allo stesso modo. Ho provato anche a giocare un po’ a Roma, ma l’idea di preparare quella borsa, gli spogliatoi, la doccia, era diventata una tale ossessione nella mia vita che l’ho tagliata fuori. Ho cominciato a giocare a basket a 5 anni e ho smesso quando sono andato a Roma a 27, 28 anni. E’ stata tutta la mia vita, per anni. A un certo punto ho detto proprio basta. Al Palamaggiò ci ho giocato, mi ci sono allenato con le giovanili, ci ho allenato i ragazzini, poi da giornalista stavo lì tutto il tempo… insomma è un luogo un po’ mitico, lo scudetto, quegli anni… c’ero molto dentro, son tutte cose che un po’ diventano dei fantasmi con cui fare i conti e che è bene che restino lì dove stanno».

To be continued… con il 4° quarto: la piccola provincia, i progetti futuri e… qualche curiosità