La vittoria ha sempre tanti padri mentre le sconfitte sono spesso e volentieri orfane. Lo sosteneva il poeta londinese John Keats ed a distanza di oltre due secoli tale teoria si conferma quanto mai attuale. Lo ha provato sulla sua pelle Francesco «Ciccio» Ponticiello, coach del miracolo napoletano con vittoria della Coppa Italia di B e promozione in A2 nel 2016/17 che, dopo pochi mesi dall’inizio della nuova stagione, ha avuto il benservito. Si sa che l’allenatore è il primo a pagare quando le cose vanno male ma… spesso e volentieri il cambio in panchina non sortisce gli effetti auspicati. E questo è successo anche al Cuore Basket Napoli, ultima in classifica ed orami ad un passo dal precipizio.
A distanza di qualche mese dall’esonero abbiamo voluto dare la parola a coach Ciccio Ponticiello per sentire la sua versione su quanto accaduto lo scorso dicembre. Ma il tecnico nativo di Sant’Antimo è andato in coast to cost «confessandosi» a 360° su Napoli e non solo.
Togliamoci subito il dente: quanto si soffre senza “panchina”?
«Credo che non poter fare il proprio lavoro, sia esso quello di allenatore o qualunque altro, non possa che seccare».
Dopo una stagione da incorniciare perché è finito l’idillio con il presidente Ruggiero?
«Non lo so, con onestà ammetto che, non essendoci stato nessuno significativo scontro dialettico, davvero non l’ho ancora capito».
Quanto è il rammarico per l’epilogo dell’esperienza napoletana?
«Molto forte soprattutto perché avvenuto solo pochi mesi dopo un’impresa, tanto grande quanto inaspettata. Non nascondo l’amarezza per un esonero, assolutamente lecito ma maturato in condizioni quanto meno inconsuete. Non c’è stato nessun litigio scatenante, anzi la decisione del club è maturata addirittura dopo il 2° successo consecutivo in casa. Avevamo battuto Cagliari che aveva appena vinto a Siena ed in seguito avrebbe violato anche i parquet di Trapani, Reggio Calabria e Legnano. Ma siamo a marzo ed allora l’attenzione è già tutta rivolta alla prossima stagione. Si dice che ciò che non quel che non t’ammazza, ti fortifica! Per quanto mi riguarda, ho già girato pagina».
L’ultimo posto di Napoli dimostra che troppo spesso cambiare coach non paga: a distanza di qualche mese ha metabolizzato l’esonero?
«Il fatto che Napoli abbia poi vinto solo un solo match sugli 11 giocati, amplifica e non lenisce il rammarico. Aggiungo che il 4 dicembre, superata l’emergenza fisica di settembre ed ottobre, vincendo due partite consecutive al Palabarbuto, eravamo penultimi, in zona playout, a solo 4 punti dalla salvezza diretta e con un secondo match casalingo alle porte, quello con Rieti. Il rammarico è stato acuito dal rendermi conto che la sofferenza, che mi ero illuso di poter condividere con la società, mi fosse stata scaricata tutta addosso».
Con l’onestà che la contraddistingue quali errori attribuisce alla sua gestione e cosa non rifarebbe?
«Nel corso di una stagione di errori se ne commettono tanti, sicuramente ne ho fatti anche io. Dopo ogni partita, da quando ho iniziato a fare questo lavoro, ci ho sempre messo la faccia. E da ottobre ho sempre fatto disamine tecniche oneste senza mai sottacere gli errori, avendo il senso di responsabilità di condividere ogni colpa. Anche quelle che erano frutto di altrui scelte. Dal mio punto di vista, infatti, se sei dallo stesso lato della barricata, se condividi con qualcuno un impegno lavorativo devi avere la schiena sufficientemente dritta per assumerti tutte le responsabilità. È un fatto etico. Ma il problema è più strutturale».
Ed allora perché è arrivata la mannaia dell’esonero?
«Perché se le risorse a disposizione sono estremamente limitate. Se per scelta e necessità hai messo su una squadra giovane. Se, pur portando dietro un contesto metropolitano, sei una neopromossa. Se sai, già prima del raduno, di dover fare a lungo a meno dei tuoi giovani migliori – di due come Nikolic e Caruso, oggettivamente decisivi. Se tra settembre ed ottobre ti capita un’autentica pandemia di ulteriori infortuni, che ti nega fino alla fine ottobre allenamenti minimamente competitivi. Se tutte queste cose sono, come sono, inconfutabili e ti ritrovi esonerato dopo 2 successi nelle ultime 4 partite… vuol dire che per qualcuno non contassero gli errori che riesci ad attribuirti: dovevi solo fungere da facile capro espiatorio».
Quando è andato via da Napoli ha detto che avrebbe dovuto capire già a giugno che era finito il suo tempo: a cosa si riferiva?
«La ringrazio della domanda, perché qualcuno ha interpretato erroneamente quel concetto. Dopo aver letto questa mia riflessione, c’è chi ha voluto forzatamente attribuirgli un inesistente significato polemico. Aver fatto riferimento al mio rammarico per l’uscita di scena di Pino Corvo, ha indotto qualcuno ad attribuirgli il significato di una tardiva sconfessione dell’allestimento estivo del roster. Ovvero come una critica del lavoro del nuovo direttore sportivo Vincenzo Ruggiero. Per quello che non era, qualcosa che è lontano anni luce dal mio modo d’essere leale, intellettualmente onesto».
Qual era allora il senso delle sue parole?
«Ciò che intendevo con il riferimento a Pino Corvo era semplicemente che, come poi è effettivamente stato, fosse tremendamente mancata, già dal raduno di Torchiara a fine agosto, la sua capacità di fungere da positivo fattore di filtro tra la squadra e la proprietà. Ed invece da luglio, anzi dal successo in Coppa Italia in avanti, avevo avuto la spiacevole impressione che ci fosse un’incomprensibile corsa di qualcuno ad attribuirsi l’esclusività dei meriti dei successi della stagione precedente. Ma per affrontare una A2, ottenuta con grande merito ma non certo programmata, sarebbe servita una cosa ben diversa dalla autoreferenzialità: livelli massimi di lucidità e raziocinio. Qualcosa che già allora non intravedevo».
Ma nella costruzione del roster qualcosa già in estate non la convinceva…
«Sono un tecnico che da sempre ha costruito le sue squadre su una forte caratterizzazione difensiva, oggettivamente non reperibile in alcune delle doti primarie della squadra che ho allenato da agosto a dicembre. Così pure non è un mistero che in estate avessi chiesto alla società, anche alla luce della gioventù d’organico, di disporre di due americani che già avessero giocato in Italia (ed erano stati anche individuati i profili ndr). Ma queste cose niente hanno a che vedere con il rammarico che avevo espresso immediatamente dopo l’esonero. Perché il non essere stato accontentato in estate, non l’ho mai visto come un qualcosa di doloso: fosse stato così, mi sarei dimesso a luglio, non sbandierato la cosa dopo l’esonero».
Da osservatore addetto ai lavori come vede il basket italiano?
«È un momento duro e difficile, non ci sono dubbi. E che due tecnici di straordinario profilo, Simone Pianigiani prima, Ettore Messina poi, non siano riusciti a centrare la qualificazione alle Olimpiadi, è un utile indicatore per intendere la delicatezza del momento. Ma viene proprio dai giovani e non dal catastrofismo in cui sarebbe facile affogare che giunge la risorsa da cui ripartire. Perché dallo straordinario comportamento delle nazionali giovanili azzurre in questi anni, dal lavoro di Andrea Capobianco e di Antonio Bocchino, viene il messaggio decisivo: invece di mettersi alla ricerca di soluzioni miracolistiche, bisogni investire nel lavoro quotidiano, door to door».Ci fa tre nomi di giovani italini da A2 su cui punterebbe ad occhi chiusi?
«Troppo facile sottrarsi alla domanda o lasciarsi trascinare da un approccio negativo che possa portare a dire: non ci sono giovani all’altezza. Ed invece no perché in realtà sono rimasto colpito in questi mesi da alcuni ragazzi, già protagonisti in estate con le nazionali. Mi riferisco a Guglielmo Caruso, non averlo potuto allenare e disporne in partita resterà il rammarico maggiore che mi porterò appresso da questa stagione. Quindi Andrea Mezzanotte di Treviglio e Lorenzo Bucarelli, quest’anno a Cagliari, sono quelli che mi hanno colpito di più. Ma ridursi a soli tre nomi è una enorme limitazione, perché in tanti si stanno facendo notare».
La scuola italiana sta esportando tanti coach, ha valutato l’ipotesi di allenare all’estero?
«Per mentalità e cultura è una cosa che mi ha sempre affascinato. Sono andato vicino a farlo per ben due volte, nell’estate del 1999 e tre anni orsono. Non ti nascondo però che, per le modalità bizzarre in cui questa stagione si è sviluppata, per il fatto che l’unico successo nelle undici partite successive al mio esonero abbia evidenziato come non fosse certo il cambio di conduzione tecnica la soluzione da adottare, c’è in me un’incredibile voglia di rimettermi subito in gioco, in Italia e con un nuovo progetto».