Il barone De Coubertin scrisse “Lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata“.
Molti anni dopo anche il Consiglio d’Europa ha inteso definire lo sport come “fenomeno sociale ed economico d’importanza crescente che contribuisce in modo significativo agli obiettivi strategici di solidarietà e prosperità perseguiti dall’Unione Europea. L’ideale olimpico dello sviluppo dello sport per promuovere la pace e la comprensione fra le nazioni e le culture e l’istruzione dei giovani è nato in Europa ed è stato promosso dal Comitato olimpico internazionale e dai comitati olimpici europei”.
La Commissione Europea si è occupata, per la prima volta nel 2007, di questioni legate allo sport, con il suo Libro Bianco, con l’obiettivo di dare un orientamento strategico al suo ruolo, riconoscendone la notevole valenza sociale, sottolineando che lo sport è una sfera dell’attività umana che interessa i cittadini dell’Unione Europea e ha la capacità di riunire, indipendentemente dall’età o dall’origine sociale. Da un sondaggio condotto da Eurobarometro ([1]) nel novembre 2004, si rileva che il 60% dei cittadini europei svolgeva regolarmente attività sportive, in modo autonomo o tesserato per una delle 700.000 società sportive che fanno capo ad associazioni e federazioni.
Anche il settore professionistico a cui, per legge, appartiene la pallacanestro italiana, ha addirittura un’importanza maggiore e contribuisce, in modo determinante, ad accrescere il ruolo sociale dello sport e la diffusione di una identità nazionale. Oltre a contribuire al miglioramento delle condizioni di salute dei cittadini europei, lo sport ha dunque una dimensione educativa e svolge un ruolo sociale, culturale e ricreativo che contribuisce a rafforzare le relazioni esterne dell’Unione.
Interessando tutti i cittadini dell’Unione, indipendentemente da genere, razza, età, disabilità, religione e convinzioni personali, lo sport è un settore in cui la Commissione è intervenuta condannando, ripetutamente, le manifestazioni razziste e xenofobe, assolutamente incompatibili con i suoi valori. In tale ottica proprio il basket, in considerazione delle sua storia e caratteristiche, ha svolto un ruolo fondamentale di integrazione inizialmente negli Stati Uniti, dove maggiore era la necessità di inclusione sociale dei cittadini afroamericani cui, per la prima metà del XX secolo, era, di fatto, preclusa la pratica sportiva.
Anche il movimento cestistico ha combattuto duramente il razzismo, male antico e globale, frequentemente risvegliato da atteggiamenti contrari a qualsiasi principio di carattere etico.
Su questo aspetto U.S.A. e Italia hanno storie parallele, ma diverse, in quanto oltre Oceano il fenomeno è presente, in modo preoccupante, anche a livello dirigenziale. In entrambi i casi, comunque, le decisioni assunte dai rispettivi organismi (N.B.A. e F.I.P.) sono state durissime.
Recentemente l’ottantenne proprietario dei Los Angeles Clippers, il magnate Donald Sterling, è finito sui media mondiali per la pubblicazione di una conversazione telefonica nella quale diceva alla giovane fidanzata: “Non portare persone di colore alle partite, nemmeno Magic Johnson“. I commenti, apertamente razzisti, hanno scatenato l’ira, anche, del presidente Barack Obama, che li ha definiti “incredibilmente offensivi e razzisti“, augurandosi l’intervento della Lega che ha poi radiato Sterling, dopo averlo anche multato di 2,5 milioni di dollari e costretto a cedere la proprietà della squadra.
In Italia invece l’intolleranza nel basket è stata esercitata soprattutto sugli spalti.
Vasta eco ebbe l’episodio accaduto il 7 marzo 1979 al palazzetto di Varese. Prima della partita di Coppa Campioni tra la squadra di casa, la Emerson, e gli israeliani del Maccabi Tel Aviv, gli ultras lombardi accolsero gli ospiti con saluti fascisti, croci e svastiche e lo striscione «Hitler ce l’ha insegnato, uccidere gli ebrei non è reato» a cui seguì una denuncia per apologia di genocidio ([2]). Alcuni anni dopo seguirono gli insulti subiti in campo dalla giocatrice del Geas Sesto San Giovanni e della nazionale, Abiola Wabara, nera di nazionalità italiana; la reazione del mondo del basket italiano fu esemplare: nel turno successivo di tutti i campionati di basket, a partire dalla A, la Federazione rivolse l’invito a giocatori e tifosi di tingersi la pelle di nero in segno di solidarietà con la cestista, lanciando la campagna «Vorrei la pelle nera».
Il diverso atteggiamento nei confronti della piaga del razzismo e dell’intolleranza, marca, probabilmente, il carattere distintivo del basket rispetto ad altri sport, anche della tradizione statunitense, per motivi socioculturali.
Come ha giustamente sottolineato Mario Arceri – autore di una Bibbia del basket ([3]) insieme al “Vate” Valerio Bianchini ([4]) – il basket, culturalmente parlando, presenta differenze dai classici sport americani, e proprio queste differenze ne hanno facilitato il successo mondiale. Baseball e football americano si giocano in orizzontale e rappresentano, in pieno, lo spirito americano della conquista del terreno, base dopo base, yard dopo yard: la mentalità del pioniere. Il basket invece si gioca lungo un ipotetico asse verticale, ed è più aperto a novità e cambiamenti.
La pallacanestro poi ha sempre avuto un ruolo di coesione e di unità. E’ vero che, inizialmente, negli Stati Uniti si confrontavano due squadre, i bianchi irlandesi degli Original Celtics di New York (che poi si sarebbero trasferiti a Boston, dando vita agli attuali Celtics) da una parte e i neri del Rens Harlem dall’altra, quindi divise su contrapposizioni prettamente razziali. Ma nel 1952, in piena segregazione razziale, un giocatore nero riuscì ad entrare nei Celtics ([5]) e fu il primo passo verso l’integrazione.
Nella prima parte del secolo scorso, in un’era in cui la boxe era attraversata da scandali per le combine legate alle scommesse; il football americano era considerato sport violento, il basket si propose come fenomeno sociale ed interculturale, medium capace di diffondere, a popoli diversi, valori positivi.
La pallacanestro è uno sport che presenta aspetti, anche esteriori (ad es. l’obbligo di autoaccusarsi di un fallo), improntati ex se all’etica ed al rispetto per l’avversario e le sue storie sono, pur nel mondo dello show-biz, “pulite” e raramente si registrano episodi di doping o frodi, nonostante i cambiamenti notevoli che hanno attraversato la società moderna.
Parzialmente in disaccordo, sul punto, è Valerio Bianchini che traccia un paragone tra calcio e basket nel nostro Paese: “Lo sport, da sempre, fa sognare la gente, anche se oggi è cambiato, basti guardare il calcio che per anni è stato un mondo intoccabile ma oggi questo mito è crollato. Anche la pallacanestro è stata coinvolta in questo crollo: siamo passati dagli anni 70 in cui il basket era un esempio per tutti gli sport, alla sbornia degli anni 80 dove grossi gruppi imprenditoriali sono entrati nel nostro sport, ai tremendi anni 90 in cui il basket si è lasciato sopraffare dal calcio, che si è preso tutte le risorse (compresi spazi sui giornali e sulle TV) e le ha sperperate, per finire ai giorni nostri dove gli stranieri la fanno da padrone nel nostro campionato. La pallacanestro, pur essendo nata negli Stati Uniti, in Italia ha una grossa tradizione, un valore, una sostanza dentro».
(to be continued)
[1] Eurobarometro, istituito nel 1973, è il servizio della Commissione Europea che monitora e analizza dell’opinione pubblica negli Stati membri. La Commissione si serve di Eurobarometro per valutare la propria attività e adottare le proprie decisioni con sondaggi e studi su argomenti di rilievo, tra cui lo sport. [2] MARIANI G., Razzismo, una macchia che unisce Usa e Italia, Lettera 43, 3 novembre 2013. [3] BIANCHINI V. e ARCERI M., La leggenda del basket, Ed. BALDINI-CASTOLDI-DALAI, 2013. [4] Valerio BIANCHINI è stato il primo allenatore italiano a vincere tre scudetti con tre squadre diverse (Cantù, Roma e Pesaro), oltre a una Coppa Italia con la Fortitudo Bologna. In Europa ha vinto una Coppa Intercontinentale con Roma; due Coppe dei Campioni (con Cantù e Roma) e una Coppa delle Coppe con Cantù. Ha allenato la Nazionale italiana ai Mondiali del 1986 e agli Europei del 1987. [5] Si tratta di Charles H. (Chuck) Cooper, che divenne famoso perché fu il primo cestista di colore della N.B.A. Fu scelto dai Boston Celtics, nel 1950, al secondo giro con il n. 12. Giocò a Boston quattro anni, poi andò a Milwakee e terminò la carriera professionistica a Fort Wayne. Con una media di 6,6 punti e 5,9 rimbalzi per gara. Morì di cancro nel 1984 all’età di 57 anni. Fonte: New York Times, 7 febbraio 1984.