Brett Brown è l’allenatore dei Philadelphia 76ers: è titolare dunque del trentesimo, su 30, incarico più ambìto della NBA.

Pur nell’Empireo, non il posto di lavoro dei vostri sogni. BB è a Philly dalla stagione 2013-14: ha appena iniziato il suo quarto anno e nei tre precedenti ha vinto la miseria di 49 gare su 246. Fu assunto per “avviare la ricostruzione” dei Sixers, progetto messo in opera dalla proprietà e dal management della franchigia, che al tempo era affidata al General Manager Sam Hinkie. Due anni prima, 2011-12, i Sixers guidati dal coach veteranissimo Doug Collins erano andati ai PO costringendo, nelle Eastern Semis, alla settima partita i Boston Celtics, che superarono il turno pur se, in un ipotetico confronto “ai punti”, erano stati i ragazzi della Pennsilvanya a meritare di più. Da quell’episodio in poi, i Sixers progressivamente smobilitarono, lasciando andare via i pezzi più pregiati. Parliamo di Andre Iguodala, Elton Brand, Lou Williams, JRue Holiday, Evan Turner, Thad Young, Mo Harkless, Spencer Hawes, Justin Hamilton, Nikola Vucevic, Jodie Meeks.
Così svigorita, la prima edizione dei 76ers che capitò in mano a Brett Brown aveva un unico compito: perdere il più possibile per poter scegliere almeno nelle prime 3 posizioni al Draft. Il solo pezzo davvero pregiato e voglioso di giocare che Brown si trovò nel roster era Michael Carter-Williams, scelto al primo giro con il numero 11 al Draft 2013: MCW vinse con merito il Rookie of the Year. Una mano la diede Nerlens Noel, scelta numero 7, uomo d’area di talento fisico ma ancora grezzo tecnicamente. Le sole 19 gare vinte e le 63 perse “volontariamente” non aiutarono certo il lavoro di Brown sulla squadra. La tattica del perdere a rotta di collo si materializzò nella terza scelta assoluta, con cui venne chiamato un centro da Kansas U., di mobilità estrema e mezzi tecnici invidiabili: Joel Embiid. Sfortuna volle che il giocatore rivelasse insospettati problemi ad un piede, e perse tutto il primo anno dopo un intervento chirurgico. E poi un altro intervento, e poi una ricaduta, e un altro viaggio dal chirurgo. Un altro anno buttato, per tutti.
Perché fu forse questo contrattempo a far perdere la testa al management, e un po’ anche al coach, rendendo cronica la tattica di accumulare sconfitte, che in USA chiamano “tanking”. Al Draft 2015 arriva Jahlil Okafor, altro giocatore d’area che si rivelerà talentuoso ma abbastanza indolente e non troverà grosso aiuto nell’ambiente iper-perdente che la smobilitazione e la ricostruzione basata sulle sconfitte volute da Hinkie avevano finito per creare. A quel Draft viene chiamato anche Dario Saric, grazie ad uno scambio di scelte con Orlando per Elfryd Payton, giocatore che restando ai Sixers avrebbe rubato minuti a Michael Carter-Williams. Ma dopo poco viene mandato altrove proprio MCW, la cui presenza era il solo vincolo di continuità progettuale della non eccelsa gestione-Hinkie. Così nella stagione 2015-16, in cui i Sixers vinceranno solo 10 partite, sfuggendo grazie alla carità altrui al record di peggior squadra della storia NBA, sia Brett Brown che Sam Hinkie sono di fatto commissariati, poiché al loro fianco vengono assunti Mike D’Antoni per la panchina e Jerry Colangelo jr per la scrivania. La squadra di Philadelphia aveva appena stabilito un set di riferimento per quello che alcuni commentatori avevano ironicamente chiamato “team-building through hara-kiri”, e quel tanking ossessivo aveva scosso anche gli uffici della NBA e il Grande Capo Adam Silver, spinto a pensare alcuni cambiamenti al meccanismo del Draft per impedire scempi tanto evidenti e sistematici. Ciononostante, dato che la Fortuna a volta premia chi non lo merita, i Sixers arrivano da ultimissimi al Draft 2016, vincono la Lotteria e scelgono Ben Simmons, l’ennesimo Messia destinato a riportare W in città. Senonchè, poiché alla pigrizia della Fortuna spesso corrisponde un’attivissima Sfortuna, Simmons, proprio come Embiid, si fa male ancor prima di cominciare a giocare e siamo ancora qui, dopo tre mesi, ad attenderne il ritorno, forse a Gennaio.
La scelta di Ben Simmons, da LSU ma nativo australiano, ci riporta ai motivi dell’assunzione di Brett Brown. Come mai fu scelto proprio questo belloccio brizzolato e mascellato allenatore, assai simile al “papà bello” di tante sit-com USA? Molti pensavano e pensano che risponda esattamente ai requisiti del tanking: un allenatore ottimo…se vuoi perdere. Non si può dare torto ai detrattori: i Sixers non hanno mai avuto uno straccio di impronta tattica in questi tre anni, e i giocatori si sono infortunati tanto, spesso e abbastanza gravemente. A sua discolpa, bisogna dire che coach Brown pare bravo a migliorare i giovani, almeno singolarmente. Credereste mai che un tipo del genere abbia vinto qualcosa? Rassegnatevi: ha vinto Titoli in Australia, ha ben guidato la nazionale cangura, e ha al dito anche un Anello NBA, datato 2007, come assistente di Pop agli Spurs. Sì, perché BB è intimo amico di Popovich, e il coach degli Spurs ha profondo rispetto delle qualità dell’allenatore dei Sixers. Il rispetto nacque appunto negli anni in cui Brown (2002-2013) percorse tutto il cursus honorum a San Antonio, raggiungendo i migliori risultati quando fu responsabile del “players development”, rendendo fortissima la panchina degli Spurs e suggerendo in prima persona l’acquisto di Patty Mills. Ancora una volta, a quanto pare, BB è meglio da sviluppatore di giocatori che da head coach, e questo potrebbe avere un senso in una franchigia in ricostruzione: purtroppo a Philadelphia l’opera di Hinkie basata sul tanking è stata rovinosa, e ora l’ambiente pare sappia solo perdere. Hinkie è stato allontanato questa estate.
MA!…a questo punto arriva Joel. Ed è curioso che il Libro del Profeta Gioele parli proprio della doppia valenza dell’intervento del Signore: prima punisce e poi redime e ri-elegge al Regno chi se lo merita. Joel Embiid, con la sua assenza forzata, è stato una delle cause (involontaria) della rovina, ma ora ha già sancito una rinascita. Al netto delle W, che ad oggi sono solo 2 sulle 11 gare disputate, il ritorno in campo di Embiid ha ridato linfa e sostanza non solo alla squadra (che potrebbe avere anche 4 o 5 W, per come ha giocato), ma soprattutto all’ambiente. Perché Joel è un gran giocatore ed un gran personaggio. Si era segnalato, durante gli anni di convalescenza, per una certa esuberanza e loquacità, twittando e polemizzando anche con Rihanna, LBJ e i Cavs tutti, ma l’approccio al Gioco di questo ragazzo è davvero di categoria superiore, oltre ad avere un talento smisurato. Tira da 3 come una guardia, stoppa, mette palla per terra come tra i centri attuali solo Cousins sa fare. Non è una furia a rimbalzo, ma riesce ad andare in lunetta con continuità, infila i liberi e ha personalità da dare in beneficienza. Il suo tweet sulla vittoria elettorale di Donald Trump è quanto di più divertente, intelligente e insieme non pesante potessimo desiderare: lo vedete nella foto dell’articolo, ma lo ripetiamo. “America is Tanking, all we can do is trust the process”…applausi a scena aperta. Come spesso capita ai figli dell’Africa, la personalità del giocatore rivela una maturità e insieme una freschezza impagabili. Siamo certi di vederlo progredire a livelli ancora più alti, e già ora parliamo di un centro che, in 22 minuti, mette in fila 18+7 con una stoppata e mezzo a gara, tira dal campo al 46%, da 3 col 50% su una ventina di tentativi, e i liberi con l’80%. E poi arringa le folle, i compagni, e ha già il cattivo rapporto con gli arbitri che aveva un professore del Gioco, una leggenda per il popolo black (e non solo), un nativo di Filadelfia (area, per il basket, di competenza, tradizione e snobismo assai elevati): Rasheed Wallace. La storia di Joel Embiid è appena iniziata, quella di Brett Brown non sappiamo quanto durerà, ma il coach ha di certo modo di gustarsi per bene il passaggio dal tanking estremo alla gioia portata da Joel.