La cultura supera i campioni. Questo dice l’approdo dei Miami Heat alle NBA Finals 2020 itB.
I Campioni segnano le epoche, costruiscono e cambiano il Gioco, ma esiste un motivo se solo poche franchigie nei 40 anni della NBA moderna (anno di inizio: 1980) hanno vinto un Anello NBA, e solo sette ne han vinto più di uno: cultura. Sapere chi si è, avere capacità sul campo e negli uffici, coinvolgere il proprio territorio, coniare un marchio che sappia resistere ai periodi bui: i Campioni da soli non fanno questo. Le Finals che vanno ad iniziare con la sfida Lakers vs Heat sommano 13 Anelli, 10 per L.A. e 3 per Miami. I Lakers sono passati attraverso l’errore del mega-contratto di Kobe, le follie di Magic Johnson dirigente che li ha impoveriti di almeno 6 giovani talenti che ora sarebbero assai utili, tentativi già permeati di fallimento come gli ingaggi di Howard “prima volta” e di un consunto, già di fatto ritirato Nash, e persino dei bastoni tra le ruote messi dalla NBA stessa quando fu vietato a Chris Paul di unirsi ai giallo-viola. Se la storia dei Lakers, tra Minneapolis e L.A., risale fino agli inizi della NBA, gli Heat sono una delle franchigie di espansione entrate tra il 1988 e il 1989. Anni che ho vissuto di persona: ricordo bene le grandi difficoltà delle nuove realtà, e la domanda su come o quando avrebbero mai colmato il gap con le altre squadre. Gli Heat (nel primo anno piazzati a Ovest…) rivelarono subito una certa sapienza nello scegliere giocatori (Glen Rice, Sherman Douglas, Steve Smith, Rony Seikaly), molto meno gli allenatori (Loughery, Ron Rothstein, un troppo inesperto Alvin Gentry), e tanta impazienza nei proprietari, che si presero male con il pubblico di Miami fin dall’inizio, quando il voto popolare scelse il nome Heat invece di Vice, che la famiglia Arison avrebbe preferito anche per via della serie TV. Tra quinto e settimo anno provarono a trasferire la squadra a San Diego e Las Vegas, ma nel 1995 arrivò l’uomo che segnò e segna tuttora il marchio della Heat-culture: Pat Riley. Il Guru dei Lakers anni ’80, come coach e general manager, impresse la svolta di cui tutt’ora a Miami si vive; prima mossa: turlupinare gli Hornets con lo scambio Rice per Mourning. In soli 24 anni dal 1996/97 sono arrivati 3 Anelli, 6 NBA Finals, 8 Conference Finals (ultimi due dati 2020 compreso). La ricostruzione del dopo-LeBron non è stata semplice perché LBJ è un Campione che esige tutto e lascia il vuoto quando se ne va. La Heat-culture, impersonata da Riley e Spoelstra, ha reso il vuoto meno drammatico: la ricostruzione è durata solo 5 anni, con 3 stagioni senza PO. Quest’anno hanno aggiunto pezzi adeguati ed efficienti in maniera davvero encomiabile: Jimmy Butler, Tyler Herro, Jae Crowder, Iguodala, Kendrick Nunn sono tutti arrivi 2019. Adebayo e Robinson sono “vecchi” di 3 e 2 anni, il pezzo più vecchio, a parte il totem Udonis Haslem, è Goran Dragic, pg che ha avuto momenti difficili per un infortunio pesantissimo al ginocchio, per alcune incomprensioni sui minuti di utilizzo (nel 2016 e nel 2017 era sul mercato), ma che ha mostrato la capacità di resistenza ed adattamento che è uno dei tratti tipici degli Heat, dentro e fuori dal campo. So bene che Jimmy-B e Bam hanno la precedenza nei cuori dei fans, e che il futuro di Herro è dorato: ma mi piace la presenza di un esperto guerriero europeo come Dragic in queste Finals, un eterno sottovalutato che finalmente potrà coronare una carriera splendida, proprio nell’anno in cui era diventato solo “l’altro Sloveno” dato l’arrivo del futuro GOAT Doncic.