Le Conference Finals sono in pieno svolgimento.
I Miami Heat sono in testa 2-1 vs i Boston Celtics, i Los Angeles Lakers stanotte si sono portati 2-0 nei confronti dei Denver Nuggets. Più dei punteggi, però, come sempre in queste righe mi piace sottolineare gli aspetti un po’ meno evidenti, lasciati passare da altre pagine e testate. Per esempio il fatto che, di 5 gare disputate tra Est ed Ovest, solo la prima W dei Lakers è stata indiscutibile: la serie di Eastern Finals, senza distrazioni dei Celtics, direbbe 2-1 Boston, se non 3-0; stanotte i Nuggets, con una difesa patetica di Miles Plumlee, si sono suicidati sull’ultima rimessa concedendo una tripla comoda al Monociglio.
Le prime due partite ad Est hanno visto gli Heat recuperare da pesanti svantaggi grazie ad una versione NBA-riadattata della zona 2-3, o box-and-one su Tatum: le isolations, alla lunga dannose, dell’ex di Duke, che a prima vista potevano apparire soprattutto scelte dell’attacco dei Celtics, erano in realtà i binari in cui la difesa degli Heat portava i biancoverdi. Per capovolgere la questione, oltre ad esigere maggior consistenza da parte dei suoi, Stevens ha dato un solo ordine: martellare il pitturato. Questo il pensiero: visto che la zona vuole obbligarci non tanto a tirare da 3, ma a scegliere quasi sempre un solo uomo per finalizzare, allora dobbiamo buttarci verso il canestro con il primo giocatore che ne ha la possibilità. All’inizio Boston ha sfruttato l’anello debole della difesa degli Heat, mirando con insistenza verso Duncan Robinson, togliendo anche ossigeno in attacco al tiratore di coach Spoelstra: effetto collaterale svanito nel quarto periodo, quando Jimmy Butler ha cominciato a giocare anche in attacco, liberando spazi sul perimetro. Il contenimento, per quasi tutta la gara, di Jimmy-B è stata una delle chiavi della W Celtics in Gara3, grazie all’apporto del rientrato Gordon Hayward. GH, che nel momento del suo terribile infortunio nella prima gara della stagione scorsa, era una sg sovradimensionata, in soli due anni di evoluzione del Gioco si ritrova a giocare da 4, e non a caso segna il suo career-high in media rimbalzi, con quasi 7/gara. Averlo attivo significa quasi tutto per Boston nella configurazione (non ideale, ma è altro discorso) con cui è stata immaginata la squadra, cioè con una pg teoricamente super produttiva in attacco (Kyrie, poi Kemba). Essendo Walker, soprattutto per questioni di taglia fisica, anello debole della difesa biancoverde, fa tutta la differenza del mondo ritrovarlo in condizioni di mismatch sfavorevole al primo o secondo cambio difensivo, oppure al terzo o quarto (ciò che accade con Hayward in campo): è stato grazie alla presenza di GH che in Gara3 sono quasi sparite le difese in post-basso di Kemba Walker contro avversari in grado di disporre della sua piccola taglia; se accadeva, era con pochissimi secondi sul cronometro dei 24. Sono solo poche note di un commentatore umile come il sottoscritto, che però ha il merito “fisico” di guardare 400 gare NBA/anno, e può dire di conoscere ciò di cui parla. E’ vero che il basket è Gioco del tutto globale, e che un nuovo profeta in panca o in campo può arrivare da qualunque parte del globo (vedi il GOAT per i prossimi 10 anni Luka Doncic), ma non facciamo l’errore che fanno tanti, da Tavcar in giù: non sottovalutiamo la NBA solo perché a volte capita di dover guardar giocare Harden e Westbrook allenati da D’Antoni. Nelle palestre del basket pro USA si annida, come sempre è stato, il futuro e il destino del basket, oltre che una officina di storie sempre attiva (per esempio la Bubble quest’anno). Chiamatela cultura, o come vi pare, ma tutti fioriscono qui, Europei-Africani-Cinesi-Americani che siano: non dimentichiamolo perché sarebbe colpevole dal momento che possiamo averne un promemoria quasi ogni giorno.