La ruota del basket NBA continua a girare, pure un po’ più tranquillamente.
Dopo i giorni frenetici dell’accordo di KD con Golden State, e del passaggio di Rose ai Knicks e Wade a Chicago, dopo la parentesi, mai così seria e seriosa, della Summer League, si può tentare una rappresentazione degli elementi più importanti emersi in questi ultimi 20 giorni. Iniziamo.
Il primo, con pochi dubbi, riguarda il business. Questa è stata la prima estate in cui le franchigie hanno potuto operare nel regime del salary cap ampliato, grazie all’onirico flusso di denaro garantito dal nuovo contratto televisivo. Volendo fare un po’ di demagogia populista gridando allo “scandalo per quanto guadagnano” potremmo dire che il simbolo del contratto-vergogna sia quello firmato dal Timoteo Sbagliato (aka Mozgov) con i Lakers: milioni all’anno per il simpatico giocatore russo sono davvero esagerati. Ma passato l’afflato ribellista, ci appare chiara una cosa: per dare un nuovo impulso al proprio già colossale impero, la NBA ha capito che i grandi centri, le grandi città, i maggiori mercati televisivi e mediatici, dovevano tornare protagonisti. Dopo il titolo alla città un tempo denominata “mistake on the lake”, centro più importante di uno degli stati simbolo della classe media e leader dei prodotti industriali derivati dalla gomma (pneumatici su tutti), Adam Silver si attende ed auspica il ritorno di New York e Lakers, e anche dei Bulls. Nella storia della cinematografia e delle serie televisive, dalla metà degli anni ’80 si assistette ad un fenomeno ritenuto necessario, per recuperare interesse e spettatori rispetto un mercato ormai sclerotizzato non solo a livello di tematiche ma anche di location: è noto come “out of L.A., out of N.Y”. Da quella intuizione sono nate serie che non avevano come ambientazione (e anche, diciamolo, come protagonista) le due principali metropoli U.S.A.: da Miami Vice in poi siamo stati negli ospedali di Chicago e Seattle, in fattorie sperdute tra Colorado e Wyoming per serie televisive o film che non erano “western” in senso letterale, ci siamo scandalizzati a Washington e abbiamo osservato serial killers con indole da Robin Hood, e nel 1995 abbiamo persino assistito, sgomenti, alla scena di un film di Spike Lee in cui per la prima volta qualcosa (un Greyhound con a bordo il protagonista) usciva da NY. Anche il basket NBA ha vissuto questa stagione, tenendo presente che la “santa assise” della Associazione era costituita da Lakers, Celtics e Knicks di rincalzo, con Bulls e Pistons ancora più a ruota. Abbiamo visto titoli a Dallas, Cleveland, la Bay Area; abbiamo visto Indianapolis e il Jersey, l’Oklahoma e anche Sacramento arrivare a uno o due passi dall’Anello, e poi, ovviamente, la creazione della Dinastia di Alamo, poco western e molto franco-caraibica, anche se alla fine il cervello è un ex uomo della C.I.A. capace di radunare talenti e cervelli cestistici davvero ineguagliati (come un’altra famosa serie). Ora, dopo aver seminato e colonizzato la “periferia”, la NBA torna dove nacque. Sono i semi del nuovo orizzonte. Il giovane assembramento di talento agli ordini di Luke Walton e la concentrazione di protagonisti tornati a NY sono l’inizio e il primo accordo dei prossimi 10 anni di NBA. Aggiungete che Boston ha già fatto molto del percorso da sola, anche nelle maglie più strette del vecchio salary cap, che i Bulls vogliono ritrovare una linea di galleggiamento decente e che i Pistons stanno pianpiano rinascendo; piano, ma sempre più veloci della loro città, che è riuscita a non morire, ma che ancora non vive proprio benissimo. La élite classica del basket NBA sta tornando, metropoli e “periferie” potranno essere ugualmente protagoniste: questo, almeno, è l’obiettivo.
Un’ultima nota tornando ai Lakers. Il loro declino è anche figlio delle scelte contrattuali sbagliate succedutesi negli ultimi 8 anni: dal contratto giusto ma sbagliato (giusto per il valore del giocatore e la sua importanza nella leggenda della franchigia, sbagliato perchè troppo alto) a Kobe, fino alle operazioni discutibili con Howard, Nash ed altri. Nel momento in cui Bryant si ritira, il salary cap esplode. Con l’attuale regime salariale facilmente il figlio di Joe avrebbe vinto altri Anelli. Oltre l’ironia un po’ crudele verso l’immensità del giocatore, sottolineerei la buona notizia: negli anni, ad ogni svolta, la NBA ha sempre saputo equilibrare l’aspetto del business con quello dello sport. Abbiamo motivo di credere che sarà ancora così. Nonostante la cloche abbia tirato molto verso l’Ohio, tra Maggio e Giugno.