Le introduzioni 2020 alla Basketball Hall of Fame radunano il trio che forse unisce più talento nella storia dell’Arca della Gloria.
Entrano Kevin Garnett, Tim Duncan e Kobe. Dopo il giorno della tragedia non ho più scritto su Bryant, nemmeno oggi lo farò diffusamente, perché questo pezzo è dedicato a KG. Ma il ritiro di Bernie Sanders dalla corsa democratica alla Casa Bianca, col conseguente via libera alla sfida di Joe Biden a Trump, mi ha fatto tornare in mente cosa dissi alla mia compagna appena dopo i 60 scritti da Kobe nell’ultima partita: hai appena visto l’ultima gara di un prossimo presidente degli USA. Ne sono ancora convinto.
KG (middle name: Maurice) è insieme a Kobe e LBJ l’esempio più alto di come a volte non fosse necessario passare per il college. Da notare anche come, con la regola del One-and-Done, arrivino dalla NCAA ragazzi ben più giovani dei suoi 19 anni e 11 mesi. Il primo anno non fu eccellentissimo, perché KG era in parte ostracizzato da coach Bill Blair, che lo faceva partire dal pino col ritornello: guarda, impara, pazienta. Minnie, purtroppo per The Big Ticket, era disastrosa ma migliorò dopo il cambio di allenatore (Flip Saunders) e con l’intro in quintetto del nostro. La definitiva laurea (ricordo il commento tv: we are witnessing the rising of an absolute Star) avvenne nei PO 1997, i T’Wolves erano per la prima volta in post-season spinti anche da Tom Gugliotta e Stephon Marbury: furono battuti 3-0 da HOU (Olajuwon-Barkley-Elie-Drexler) ma Garnett strabiliò contro il Nigeriano e Barkley.
L’energia, l’atletismo, la voglia di competere, la durezza fan spesso sottovalutare il talento tecnico di Garnett, che, inoltre, ha brillato in un’era in cui le PF erano il sale della NBA: per es. dal 1993 al 1997 appaiono, oltre a lui e solo per citare i migliori, Duncan-Webber-Sheed-Dirkone. Dare poco risalto alla tecnica è mancanza comprensibile proprio per la grandezza delle sue capacità atletiche: dopo l’ufficializzazione dell’ammissione alla HoF sono circolati tanti video dei suoi giochi migliori, fate caso alla frequenza di salto, a quanti sforzi possa fare di seguito nello spazio di 2 o 3 secs. Negli stessi video troverete anche mid-range, tiri da 3, passaggi dietro la schiena o no-look dietro la testa: capacità tecniche che per saltuari ma non irrisori tratti della carriera fecero di lui il primo di una futura stirpe di sf impressionanti per dimensioni, agilità/rapidità di piedi, capacità di segnare da fuori. I T’Wolves come franchigia non sono rimasti esattamente nel suo cuore, e la carriera nel Minnesota è messa in ombra da quanto conseguito a Boston (Titolo, Original BigThree, esplosione mediatica definitiva), ma lo sforzo compiuto da KG nei 12 anni a Minneapolis meritava altro esito e merita identica memoria. Impossibile non ricordare come nel 2003/04 i T’Wolves ebbero il miglior record della NBA, eliminarono sia i Nuggets che i fortissimi Kings (Peja-Vlade-Webber-Bibby-Chistie) in un’epica serie in 7 gare, e poi persero 4-2 vs i Lakers solo perché privi della pg titolare (Cassell) e della riserva (Hudson), costringendoli non poche volte a far portar palla proprio a Garnett (sennò toccava a Freddy Hoiberg…).
KG ha giocato nella NBA per 22 stagioni, come Kobe al momento del suo ritiro aveva più anni nella Associazione che anni senza (22 a 19), e quanto determinante sia sempre stato è decifrabile anche nelle stats più nascoste: per esempio ha giocato 143 gare di PO e sempre, SEMPRE anche negli anni finali della carriera come l’ultmo a BOS e il primo a BKN, è partito titolare mai giocando meno di 20 mins. Kevin Garnett, Hall of Famer.