
Ci sono incontri che fin da subito hanno in sé la potenza del possibile. Stanno lì, come un pallone a bordo campo, pronti a trasformarsi in passaggi, tiri, assist. In un mondo di possibilità da esplorare.
Ho conosciuto Davide Dileo per motivi di lavoro. Quei contesti professionali in cui si va per fare una cosa e, se va bene, si esce con un’impressione. La mia è stata semplice e netta: questa è una persona che ha una bella storia da raccontare.
La musica, certo. I Subsonica, i progetti da solista, il Conservatorio, l’elettronica, il pianoforte. Ma anche un’energia intensa, un’intelligenza viva, curiosa, spigolosa il giusto. Uno di quelli che ti danno risposte che non suonano mai come preparate, ma come pensieri che stanno accadendo lì, mentre parlano con te.
Quando gli ho proposto questa intervista, gli ho chiesto quale fosse il suo legame con il basket. E lui, molto onestamente, mi ha parlato di “una laicissima curiosità mai sviluppata”.
Perfetto, ho pensato.
Perché non mi interessava sapere quanti rimbalzi ha preso nella vita, ma come si muove tra le righe del suo spartito, come fa ball handling tra i generi, come costruisce il suo tiro espressivo, come si ferma per un timeout creativo.
Così è nata l’idea di usare le parole del basket come metafore per raccontare una partita diversa: quella della sua vita, della sua arte e della musica. E Davide, Boosta, ci ha messo il suo ritmo.
Pronti per questa partita?
Cominciamo.
🏀 RISCALDAMENTO
RISVEGLIO MUSCOLARE E STRETCHING
Che bambino sei stato, in che famiglia sei cresciuto, in che Torino sei cresciuto?
Sono cresciuto in una famiglia tranquilla, medio borghese. Mamma insegnante, papà dirigente in una piccola azienda di trasporti, un fratello. Sono cresciuto tranquillo… beh, no, tranquillo no. In realtà sono cresciuto in un ambiente troppo tranquillo, per cui mi andavo a cercare i guai. Diciamo che ho fatto un po’ di “danni” dai 14 ai 18 anni.
Che danni? Dai, non essere timido, siamo tra amici…
Beh, ne ho fatte un po’ di ogni… (ride). Ho simulato rapimenti, sono scappato di casa, ma non perché stavo male a casa, semplicemente perché mi sembrava un’esperienza da fare nella vita. Poi quando diventi genitore la tua percezione su queste bravate cambia un po’.
Però sono cresciuto sempre col sogno della musica, fin da quando ero piccolo piccolo, proprio da sempre. Ho cominciato a suonare a sei anni, e dalla prima media ho cominciato a voler fare il musicista, non ho mai pensato ad altro. Ho fatto tantissimi concerti in camera mia, coi cuscini, facendo il batterista, poi il cantante.
Quindi non avevi una strada dritta sullo strumento?
No, cioè ho cominciato a studiare pianoforte a sei anni, però quando ti fai i concerti immaginari te li fai sognando tutto. Tornando alla domanda iniziale, l’infanzia in realtà è scorsa per certi versi molto bene, per altri in modo un po’ faticoso, perché avevo un’ambizione diversa dagli altri, che era quella di suonare. Ho cominciato a suonare nei locali che avevo 14 anni, 15 forse, e frequentavo un liceo classico importante di Torino, l’Alfieri. Era un liceo che pretendeva un tipo di studio non compatibile con la vita notturna di un quindicenne. Quindi, per esempio, io avevo il mio primo gruppo, ma non avevo il permesso di suonare durante la settimana, potevo farlo solamente nei weekend. E c’era una forma di “ostracismo scolastico” per cui capitava che magari suonavo col gruppo ai magazzini Gilgamesh e, se girava bene, magari usciva il trafiletto su La Stampa… io ero fierissimo di questa roba qua e invece dai professori venivo “maltrattato” scolasticamente, perché il liceo chiedeva un altro tipo di impegno. Devo dire però che, sfangata quella parte lì, poi è stato tutto più semplice. Tutto sommato per alcuni aspetti sono cresciuto in maniera tranquilla, per altri c’era una sorta di daimon invece, che mi dava una grandissima dose di inquietudine che ho fatto fatica a tener salda e che ogni tanto strabordava qua e là.
🏀 1° QUARTO: IL GIOCO COMINCIA
ALLENAMENTO
Qual è stato, nella tua crescita, l’allenamento più importante: la disciplina del Conservatorio o l’indisciplina del clubbing?
Sono due allenamenti complementari, come quando fai esercizio atletico e poi ti eserciti con la palla. Credo che la tecnica naturalmente serva, la devi curare tantissimo ed è fondamentale, ma un musicista che non voglia essere solo un interprete deve fare delle scelte. Io ho sempre ragionato sul fatto che la tecnica mi serve a realizzare quello che ho in testa, e in testa ho sempre avuto di voler scrivere musica. Non c’è cosa più frustrante, esattamente come quando giochi, di immaginare, sapere cosa vuoi fare con la palla e poi il tuo corpo fa tutto il contrario. Senza tecnica, non hai la cassetta degli attrezzi. Se ce l’hai, invece, ti serve per fare quello che vuoi e, nel momento in cui non ci arrivi, allora diventa un puntello per proseguire il tuo percorso. Il processo è un po’ questo: io ho in mente qualcosa, non mi viene, non la so fare, imparo a farla. Sono, come dire, mini moduli di apprendimento invece che avere fin dal principio una dotazione incredibile di strumenti. Poi ci sono scuole di pensiero amplissime sul fatto che il famoso “less is more” abbia comunque un significato. Se tu hai un solo strumento a disposizione o una sola tecnica a disposizione o, per dirla in maniera più ampia, ti dai dei recinti che possono essere larghi ma non larghissimi, a quel punto devi esplorare il tuo spazio molto bene. Esplorare, nella composizione, significa che se io ho a disposizione il mio talento e la mia tecnica devo sorprendermi con la mia tecnica, con il mio talento. Poi con il passare degli anni ti viene voglia sempre di più di imparare altro. Ecco, io questo ce l’ho sempre avuto, la curiosità di esplorare, che è il motivo per cui magari studi musica classica, poi contemporanea, poi fai clubbing… Alla fine nella musica questo è un aspetto diverso rispetto allo sport, perché nello sport tu scegli una disciplina e tendenzialmente ti dedichi a quella. La musica invece è un grande contenitore, in cui i generi sono semplicemente una comodità narrativa, perché è più facile dire “Faccio pop”, o rock, o classica, o jazz, però poi le cose sono molto più mescolate di così, perché io magari faccio pop elettronico con influenze rock o jazz e… insomma, alla fine la creatività è la centrifuga dentro la quale ci sono tutti i tuoi input che hai raccolto negli anni, le tue passioni, e le passioni comunque variano perché la curiosità cambia. Uno può essere curioso per sempre della stessa identica cosa? Magari sì, ed è molto privilegiato perché diventerà un super esperto di quello che ama. Però il musicista fa racconto e il racconto deve inevitabilmente avere una base di curiosità amplissima.
Noi siamo come dei rigattieri di emozioni, storie, suoni e nel momento in cui tu hai questa sorta di deposito di un sacco di cose completamente diverse, non sai a cosa ti potranno servire un giorno, ma comunque potranno tornare utili. Io faccio così anche con gli strumenti, compro cose che magari non uso per anni e poi, in un determinato momento, mi rendo conto che mi serve proprio quello. Funziona così con la creatività, l’allenamento è tutti i giorni. Non lo fai solamente al campo, lo puoi fare in strada, sull’asfalto, di notte, di giorno, in buone condizioni fisiche, in pessime condizioni fisiche. Comunque, come nello sport, sviluppa una grande memoria muscolare e una serie di automatismi che ti agevolano, perché con quelle basi ti puoi concentrare sulla curiosità.
FONDAMENTALI
Quali sono i tuoi fondamentali musicali, quelli che ti porti dietro in ogni progetto e che plasmano la tua idea di musica?
I fondamentali per me esulano dal contesto prettamente musicale. Non sono le tonalità, che ne so, tipo “io scrivo bene in re”, né il tipo di musica, tipo scrivo bene le cose lente o scrivo bene le cose veloci. Il nostro mestiere non è così. Quello che probabilmente rimane fondamentale ancora adesso è la ricerca della sorpresa. Questo, specie quando lavori da solo, diventa complicato perché hai i tuoi pattern intorno ai quali giri, ed è come rimescolare la stessa cassetta degli attrezzi. O meglio, è come avere tutti i mattoncini Lego che sai che sono nella tua scatola, li tiri fuori e una volta fai un muro, una volta un castello, una volta una strada, una volta una macchina, ma i mattoni sono quelli. La cosa fondamentale è riuscire a escogitare un piano, o a sorprenderti mentre stai facendo qualche cosa, perché dopo che scrivi musica per tanti anni inevitabilmente un po’ diventa mestiere, e lo è oggettivamente. Però non può essere un mestiere che non ti dia più un’emozione. A me piace ancora quando scrivo qualcosa e risentendola mi alzo perché mi gaso, mi sento felice. Quella parte lì è una cosa che ricerco sempre e l’unico problema è che mi rendo conto che, quando manca, adesso la patisco ancora di più, cioè quando mi annoio, mi annoio veramente male e mi dispiace, perché mi sembra di non rendere merito al privilegio che ho facendo questo mestiere.
PARQUET
Il tuo pianoforte è il tuo parquet. In che modo cambia da progetto a progetto il modo in cui lo ‘calpesti’?
Beh, il parquet ha un suo suono, ha un suono particolare. Immagino che dipenda da tanti elementi, no? Da quante persone lo stanno calpestando, dal tipo di movimenti che fanno, dal peso, dal tipo di scarpa, perché se tu arrivi con un mocassino sul parquet fa un suono, se arrivi con la scarpa da gioco un altro, se arrivi in scivolata ne fa ancora un altro. Ci sono mille suoni, e la stessa cosa è con il pianoforte. Sì, per me il pianoforte è il parquet, nel momento in cui decido come dargli vita, come viverlo.
Posso stare fermo, posso sedermici, posso toccarlo, posso percuoterlo, posso viverlo in tanti modi diversi. Ed esattamente come il parquet fa un suono per ogni azione compiuta, anche il pianoforte fa la stessa cosa, cambia suono a ogni azione che compi su di lui e con lui.
To be continued…