QUICKEN LOANS ARENA, CLEVELAND. GOLDEN STATE WARRIORS 101 – CLEVELAND CAVALIERS 115. 3-3
Sesto atto di una finale in cui l’epica magari è stata un po’ indirizzata e ricercata, ma alla fine è arrivata. L’anno scorso si era parlato di Finals mutilate, coi Cavs dilaniati dagli infortuni, quest’anno la mutilazione sarebbe potuta arrivare alla quinta gara, ma a farla da padrone sono ancora infortuni e, novità, squalifiche. Considerando contratti televisivi, sponsor, e l’economia di questo sport in genere, una serie finale decisa in sette gare è sicuramente un prodotto remunerativo per la lega, forse meno per lo sport inteso come pura competizione. In ogni caso, senza dilungarsi ulteriormente su come sia arrivata questa sesta gara, andiamo ad analizzarla.
Il primo quarto mostra un’inerzia più che evidente, dal primo contropiede concluso a due mani da LeBron, che sigla il primo parziale di 6-0, si ha l’impressione netta di quanto accadrà in seguito. Gli Warriors non riescono mai a dominare ed imporre il proprio ritmo, contrariamente a quanto dicono i numeri, che danno 5 tiri in più ai californiani. Tirare più velocemente non significa dettare i ritmi, soffermandosi poi sulla qualità dei tiri, il 40% finale sembra quasi un affare. I campioni sono una squadra straordinaria quando riescono a girare, allo stesso tempo sono una squadra perfettamente normale, anche qualcosa di peggio, quando non trovano il loro ritmo ideale e la fiducia che gli consente di fare quelle magie che incantano tutti da due anni a questa parte. Il parziale del primo quarto è di 32-11 e lo strappo più psicologicamente che numericamente non verrà più ricucito. LeBron ne segna altri 41, ne sforna altre 11, e manca la tripla doppia per due rimbalzi. Si può discutere per anni sul suo modo di giocare e di gestire le situazioni, indiscutibile è che LBJ sia nato per giocare partite del genere. Col secondo quarantello consecutivo si fa spazio ad un altro tavolo del valhalla cestistico, seduto di fianco a Shaq, Michael Jordan, Rick Barry ed altri pochi eletti parte di un gruppo non troppo nutrito di autori di almeno 40 punti in due gare consecutive di finale. Se da una parte c’è un uomo solo (nemmeno troppo) al comando di una truppa vincente, dall’altra un comandante solitario che mentre la nave affonda resta a galla. La partita di LeBron James è epica, quella di Curry romantica. Nonostante litighi col referto per i troppi falli (uscirà per sei a metà del quarto periodo) si rende autore di 30 punti in 35 minuti, facendo anche sospirare per qualche minuto i Cavs. Passata la ripresa infatti, l’unico momento in cui la competizione pare accendersi è tra terzo e quarto, quando anche Thompson si accende ed insieme a Curry riporrtano lo svantaggio a cifre accessibili. Sui volti dei Cavaliers si legge per qualche minuto la paura e la frustrazione di dover vincere di nuovo una gara già vinta. Su quella di LeBron soltanto la stizza di chi dopo aver schiacciato la mosca la vede ancora volicchiare. Degli ultimi 25 punti prima del definitivo garbage time, il prescelto ne segna 23, in arresto e tiro, attaccando il ferro, tirando da oltre l’arco, in schiacciata raccogliendo al volo da JR come se fosse a Toronto. Ad accompagnare il Re c’è ancora Irving (23) che è troppo giovane per il valhalla ma affatto indegno. TTT mette tutta l’energia che ha, in casa è un altro giocatore, JR fa perfettamente il suo, 14 con 11 tiri, ma con questi volumi e senza troppe sbavature è anche godibile. Dall’altra parte Klay accompagna l’MVP con 25 punti da 21 tiri, alzando la percentuale prima della resa finale. L’unico altro in doppia cifra assieme agli splash brothers è Barbosa, gli altri non riescono a trovare nessuna dimensione in campo. La partita di Harrison Barnes è emblematica in questo: the black falcon tira 8 volte per 0 punti, definirlo un pesce fuor d’acqua è mero eufemismo. Si va a gara 7, il cliché ci dice che ogni partita è storia a sé, e rime a parte è la verità. Parzialmente pilotate o meno abbiamo assistito a varie inversioni di tendenza, si giunge ora all’atto finale, sperando che quella decisiva, quella vera, sia degna di quello che rappresenta.