C’è una nuova Stella nel firmamento della NBA: si chiama Kyrie Irving.

Era già un campione, già una Prima Scelta Assoluta (2011), già un Campione del Mondo FIBA con Team USA, già parte di un Big3. Ma stanotte è entrato nel Libro, quello vero. E’ stato soprattutto lui a consegnare il Titolo ai Cleveland Cavs. Non vogliamo ignorare la serie giocata da LBJ, ma il suo apporto era di fatto il requisito minimo indispensabile per arrivare alla Meta. Quello di cui si poteva dubitare era tutto il resto. E appunto su “tutto il resto” i Cavs hanno costruito le 4 W che li hanno resi Campioni. Prima dei giocatori, però, mi soffermerei sulla città. Nello sport moderno non aveva mai vinto nulla. I Cleveland Browns hanno vinto il loro ultimo titolo nel football americano pre-Superbowl, nel 1964. I Cavs avevano avuto prima la fama di squadra peggiore della NBA (dai 70’s fino a metà 80’s), poi hanno avuto occasioni franate contro MJ o contro Spurs e Warriors più recentemente; infine i Cleveland Indians sono sostanzialmente inguardabili da 68 anni, con parentesi 40ennale (1954-1993) di vergogna assoluta, tanto da meritarsi esplicita attenzione da Hollywood in film (Tom Berenger, Charlie Sheen, Wesley Snipes) sul baseball ma appartenenti al filone “la squadra più pazza/mamma ho perso anche questa partita”.
Stanotte l’attesa è finita. Al di là di tutta l’epica lebroniana dalla quale saremo letteralmente sepolti nei prossimi giorni, resta una Serie Finale fortemente e con non poco imbarazzo indirizzata dagli uffici della NBA con la squalifica di Green per Gara5, ma anche una serie in cui i Cavs hanno fatto girare molto bene i meccanismi del loro orologio, a cominciare dal secondo solista, Irving appunto. Stanotte 26-6-1, ed è impressionante quanto poco la casella degli assists inquadri la leadership che ha avuto, e la confidenza che ha saputo regalare ai compagni. Alla fine, the dagger è stato lui, con la tripla del 92-89, in faccia a Steph e in puro stile da campetto cartesiano: ho la palla, dunque tiro. Un altro Cavaliere che ha dato spazio a una filosofia semplice ma sempre efficace è stato il coach: Tyronn Lue. Mentre con un po’ di tristezza assistiamo a cerimonie celebrative della carriera di Allen Iverson in cui A-I si lancia in discorsi impastati chiaramente di chimica farmaceutica, Lue si è liberato di “the step-over”, il fotogramma in cui Iverson gli cammina sopra dopo averlo messo a sedere durante le Finals 2001. Se ne è liberato vincendo l’Anello alla prima esperienza da head-coach, e meritandoselo in particolar modo durante la Serie Finale. Dicevamo di un paio di accorgimenti, in particolare difensivi: anche questi, per la semplicità e non per svilirne la assoluta nobiltà, hanno sapore di campetto. Mi permettono di menare Steph, soprattutto quando è senza palla, dunque io lo meno. E poi, soprattuto stanotte, l’abilità con cui ha ristretto spesso a un 3 vs 3 la sua sfida all’attacco di Golden State: la consegna era che quello senza palla tra Klay e Steph (più spesso Klay dunque) non dovesse assolutamente ricevere, e che, appena quello dei due con la palla la mollava a un compagno, non dovesse mai più averla indietro, riducendo la sfida appunto a un 3 vs 3. I trittici più frequentemente opposti sono stati LBJ-Love-Smith vs Green-Iggy-Barnes, e qui si nota la sapienza tattica di Lue. Gli altri due Cavs, infatti, sono stati, nella maggioranza dei casi, Kyrie e TTT, ovvero il peggior difensore di Cleveland e il lungo in grado, off the ball, di stare al passo sia con Steph che con Klay. Il risultato? Nel 3 vs 3 la difesa di Cleveland non soffriva della presenza/non presenza di Irving, e l’abilità atletica di TTT (che ha ricordato quella di Gallinari senior su Larry Wright nella mitologica finale Milano-Roma del 1983) preveniva il ritorno della palla agli Splash Bros.
Gli Splash hanno fatto i conti con il loro prossimo traguardo: resistere alle botte. Probabilmente durante la prossima Regular Season saranno più tutelati, ma chiaramente la difesa impostata dalla NBA al gioco “solo triple” è quella di permettere ciò cui per prima cosa ogni allenatore NBA ha pensato per affrontare Thompson e Curry: menarli, in particolare sui tagli. Klay e Steph, e in generale il gioco di Golden State, hanno fissato uno standard, e ora dovranno adeguarsi alla reazione. Per tutta la seconda parte della Serie Finale le % degli Splash Bros hanno oscillato attorno al 33%, e il crollo (e la sottrazione forzosa) del supporting cast ha reso evidente che l’inerzia era tutta di Cleveland e della sua ferrea difesa. A proposito di supporto: da Gara4 in poi, coach Lue ha scelto coraggiosamente di giocare in pratica con 7 uomini, con i soli Shumpert e Jefferson a godere di minuti sensibili dal pino. Ha rinnegato alcuni giocatori come Dellavedova e Frye e ha scelto una sporca mezza dozzina con la quale, eventualmente, morire: un gioco di fiducia e motivazione reciproca che ha ben ripagato, soprattutto nella ripresa di Kevin Love. Una ripresa, non una vera resurrezione, ma sensibile. Se le statistiche non lo premiano (% di tiro davvero orrende, in particolare), il Californiano ha tuttavia saputo offrire tanto impegno, tanto gioco sporco, tanto sacrificio, e alla fine ha partecipato anche lui alla apoteosi di stanotte. Un mattone fondamentale infatti è stata la sua difesa sull’ultimo vero attacco di GS, quando, con i Cavs sopra di 3 dopo la tripla di Irving, Love ha contenuto Steph in palleggio, impedendogli una tripla pulita. Nello starting5 dei Cavs, Love è quello che ha giocato meno, 30 minuti, si passa poi per TTT a 32, Smith a 39, per arrivare ai 43 di Irving e ai 47 di James (27-11-11 ma anche 5 perse e 9/24 al tiro).
Passando agli Warriors non si può non citare l’immenso Dray-G (32-15-9) del 5/5 nelle triple nel primo tempo (6/8 alla fine), che ha tenuto in piedi la baracca da solo fino a che ha potuto. E’ mancata lucidità a Golden State, o, se preferite, troppa è stata la loro frenesia. Gli attacchi Warriors, positivi o meno, erano attimi; quelli Cavs erano assedi: duravano tantissimo, e anche quando la difesa californiana sembrava aver prevalso, arrivava un rimbalzo in attacco di Love o Thompson, o un fallo non troppo furbo di Barnes o Varejao, a dare altri giri di palla a James&co, altri secondi mangiati, qualche tiro libero dal cielo. Non solo il numero complessivo dei tiri sbagliati, o le % degli Splash (12/36 insieme), ma anche il modo in cui quegli errori arrivavano è stato determinante nella sconfitta: frenesia appunto, e quando il 10/21 da 3 del primo tempo ha cominciato a diventare progressivamente il 5/20 della seconda metà, è stato evidente a tutta la Oracle che non era la serata per ripetersi, non era clima da back-to-back. Ciononostante, per certificare una volta ancora che parliamo, semplicemente, del meglio al mondo, la gara è stata decisa da 4 punti, ed è un dato eclatante se si pensa a quante cose hanno funzionato al meglio nei Cavs e a quante hanno funzionato male negli Warriors.

La NBA vira rapidamente dopo ogni grande emozione, e tra meno di un centinaio di ore si terrà il Draft 2016. Vi terremo sul filo delle notizie ancora, dunque, a cominciare dall’esplorazione delle prestazioni singole della Serie Finale con i voti del collega Luca Morucci, e poi tanto Draft, da domani, con la seconda e definitiva uscita del nostro Mock.