NBA Lab continua andando ad analizzare le caratteristiche dei soprendenti Lakers di Luke Walton.

Una delle cose che, nel romanzo a 82 puntate del Lungo Addio di Kobe, non sono state dette, perché non si potevano dire, è che negli ultimi 3 anni, tra infortuni e megacontratto, tra crisi di identità altrui e fin troppo definita identità di Bryant, i Lakers e il giocatore, avvinti nel loro inestinguibile inossidabile amore, non avevano fatto il bene o gli interessi reciproci. La proporzione della scimmia che si è tolta di dosso ai ragazzi in canotta gialla e viola non è raccontabile, così come lo spazio vitale che si è creato nel salary cap dei Lakers, e la conseguente possibilità di svolgere un lavoro di scouting e management che possa avere un senso.
Non è stata una stagione, quella scorsa, ma una pièce teatrale di enorme successo e grande coinvolgimento emotivo, culminata con un ultimo atto (i 60pti della sua ultima gara) davvero supremo. Poi, però, tutti sapevano che si sarebbe dovuto ricominciare a giocare a basket, e che si doveva farlo in un Impero di fastosa tradizione nel quale era venuto a mancare il Visìr (dall’arabo, letteralmente: colui che decide). Ci voleva una mente fresca da mettere al comando della squadra. Al contempo, quella mente doveva essere anche “Kobe-free”, cioè libera da legami di amicizia, riconoscenza, convivenza, contiguità, contrasto o pregiudizio sia negativo che positivo rispetto a Bryant. Per fare un esempio: Doc Rivers, allenatore dell’altra LA e anche fiero oppositore di Kobe come coach dei Celtics, non andava bene. E bisognava anche che fosse uno bravo, già certificato tale nei pro, non in un qualche ateneo NCAA: meglio se già in possesso di qualche Titolo o record NBA. Per finire, se avesse avuto anche una “Hollywood allure”, se cioè fosse stato mediaticamente intrigante per aspetto ed approccio, beh, non sarebbe stata una cosa negativa. La crocetta su ognuna di queste caratteristiche, se ci pensate bene, componeva un percorso che non poteva condurre a nessun altro che non fosse Luke Walton. Ha tutte le qualità sopra elencate, ed in più è figlio di Bill, che a UCLA ha portato tante W quante Lew Alcindor poi Kareeem-Abdul Jabbar, e la sua grandezza di giocatore è riconosciuta tanto che tutti nell’area di LA gli perdonano di non aver mai giocato nei Lakers e di, anzi, aver vinto un Anello battendoli giocando per i Celtics.
Luke era dunque l’uomo per quel lavoro, restava da verificare se fosse vera l’altra faccia della questione, se il lavoro fosse adatto a Luke, pur se tutti erano pronti a concedergli, nel primo anno, le attenuanti per una stagione che pochissimi pronosticavano oltre le 25 W.
Sta iniziando ora la sesta settimana di Regular Season e i Lakers hanno già vinto 10 partite, con 10 L, e sono quindi al 50% di record, essendo stati anche in zona di record positivo (6-4, 8-7). Hanno anche già compiuto qualche impresa, come battere allo Staples i GS Warriors seppellendoli sotto un ventello.
Se avete visto i Lakers versione Walton, sapete che giocano abbastanza liberi, che hanno una netta propensione per il doppio pick and roll alto e per i tagli back-door; aggiungiamo che, quando D’Angelo Russell è in campo, forzano con una certa costanza la penetrazione centrale, anche a costo di andare incontro a disastri, e che 135/45 è la ripartizione dell’arco da tre secondo i gradi in cui di solito è posizionato Lou Williams (40% da 3 in stagione) rispetto all’uomo che effettua la penetrazione. Del gioco che Luke Walton ha contribuito a creare a Golden State non è rimasto molto, se non la tendenza a giocare entro i primi 8 o gli ultimi 6 secondi dell’orologio dei 24, e il tentativo, per ora non riuscito, di replicare in difesa un “effetto Bogut” con la presenza di Timofej Mozgov, il centro russo reduce da aver vinto un Anello coi Cavs proprio contro la panchina in cui Luke assisteva Steve Kerr. Purtroppo Mozgov non è Bogut e conferma, al di là di essere un giocatore discreto, che lui è e per sempre sarà The WrongOne, ossia, come lo abbiam chiamato, il Timoteo Sbagliato. Il dato più rimarchevole, secondo noi, della gestione di Walton è però la ripartizione dei minuti. Sparito il Visìr, il nuovo coach ha dato all’Impero un nuovo assetto, di stampo decisamente socialista. Un “giocare meno per giocare meglio” (e, per ora, vincere molto più del previsto). Nei Lakers 9 uomini restano in campo tra 28,1 e 21,3 minuti: uno scarto bassissimo, inferiore ai 7 minuti, tra il più impiegato e l’ultimo posto utile prima di quelli dei derelitti del pino. Inoltre il più impiegato è Jordan Clarkson, che non parte in quintetto (uno starting five su 20 per lui), e il nono per minutaggio è invece un partente: il Russo. Nemmeno il migliore realizzatore è uno starter: parliamo di Sweet Lou Williams, che segna quasi 17 a notte ma ha 0 quintetti al suo attivo. Nell’era dello sharing, coach Walton distribuisce e condivide i minuti tra molti dei suoi giocatori, ribaltando del tutto l’impostazione filosofica di base che i Lakers avevano quando il Mamba era attivo. Meno minuti, ma più possibilità e più occasioni, e meno responsabilità; e, ripetiamo, non è piccola la questione di non avere più Kobe che ti guarda in allenamento o in partita. La semplice presenza di Bryant era di per sé un giudizio: negativo; perché gli altri (molti dei quali son rimasti nel roster di Walton) erano quelli che, troppo scarsi o giovani o vecchi, non avrebbero mai potuto regalare al grande numero 8-24 l’ultimo Anello, ciò che desiderava più tutto. Invece, guarda un po’, sta venendo fuori che non è tanto poco il talento dalla parte gialloviola. Lo sharing minutes porta 5 in doppia cifra (tra 16,7 e 13, 2: pochissimi 3,5 punti di differenziale tra primo e quinto miglior scorer), e ne mette altri 6 tra 8,4 e 5,1: anche qui, la differenza di 3,3 punti tra sesto e undicesimo marcatore è davvero minima. La somma dei giocatori citati è però 11: alla lista dei 9 aggiungiamo infatti Tariq Black e Jose Calderòn, che giocano rispettivamente 15 e 14 minuti, non male per decimo e undicesimo uomo. Non male, e derivato dalla filosofia di Walton, è anche il fatto che ognuna delle categorie statistiche è capitanata da un Laker diverso: Sweet Lou miglior realizzatore, Randle miglior rimbalzista, Russell guida gli assist, Clarkson i recuperi e Tariq Black, il decimo della rotazione, è il miglior stoppatore; in questo ultimo caso conta anche il fatto che Mozgov sia The WrongOne, ma, a livello di pura filosofia di squadra, non è affatto spiacevole che un decimo uomo occupi il primato in una categoria statistica. Recentemente si sono fatti male Russell, Young e Randle: tre pezzi molto importanti del roster, eppure i Lacustri non sono affogati, anzi: con Young e Russell fuori e Randle appena rientrato, hanno vinto allo United Center violando la casa dei Bulls, che erano 7-3 nelle ultime 10. Pare che il socialismo di Luke Walton sia efficace anche nell’attenuare le conseguenze negative degli infortuni.