Dopo una battaglia nemmeno tanto aspra, North Carolina ha battuto Gonzaga nella Finale NCAA, e “vendica” la sconfitta dello scorso anno vs Villanova.
Il punteggio 71-66, l’andamento dice che Gonzaga è stata spesso avanti, ma senza mai riuscire a scavare un fossato significativo. L’unica università blasonata tra le 4 arrivate al ballo finale porta così a 6 i Titoli vinti nella storia, e rende meno amara l’esperienza NCAA di Federico Mussini da Reggio Emilia, che al momento di scegliere il college da una rosa ristrettasi a 3, ha preferito St. John a Gonzaga (la terza era Ohio State). Vittoria nella tradizione, dunque, ma Torneo NCAA nel complesso assai deludente. In USA si osserva che sono ormai davvero pochi gli elementi fondanti del basket collegiale a funzionare ancora. Tutto il fascino che ancora lo avvolge è in gran parte frutto del passato, del desiderio di fare finta che il passato sia ancora attuale, e del fatto che molti usano il basket tipico delle Università come “arma” vs il basket pro, come simbolo di un modo “puro” di affrontare ed amare lo sport: modo che è ben lontano dalla realtà dei fatti. Noi cercheremo di offrirvi una visione il più possibile supportata da fatti e numeri, e lontana dalla prevalente visione bucolica che si vuole continuare a offrire del basket NCAA. Una sorta di “abbasso i luoghi comuni”.
Tra i caratteri fondanti citati inseriamo: incertezza e pathos delle partite; capacità tattica degli allenatori di renderle interessanti nonostante l’età dei giocatori; possibilità di assistere a miglioramenti intrigati nei giocatori di anno in anno o a volte anche di gara in gara; eterna lotta tra Davide e Golia, tra Atenei blasonati e altri molto meno o per nulla; basket libero da argomenti di tipo economico; basket, in particolare il Torneo Finale, sorvegliato da una Commissione altamente competente in grado di distillare davvero il meglio dell’enorme serbatoio universitario. In questa prima puntata esamineremo la questione della incertezza e pathos delle gare, e quella della regola che obbliga tutti i liceali a fare un anno al college prima di passare pro.
Mettiamo sul piatto qualche numero. 63 gare giocate in questo Torneo Finale: 24 si sono decise con scarti pari o inferiori a 6 punti; 29 con scarti pari o superiori a 10, e tra queste 19 con scarti superiori a 15, e tra queste ben 13 con scarti superiori a 20. A livello di Sweet16 la situazione migliora leggermente: su 15 gare 8 hanno avuto scarti pari o inferiori a 6, mentre 6 son state decise con scarti pari o superiori a 10. Sono numeri tuttavia sufficienti a far tramontare il primo mito collegiale: l’incertezza delle gare, il pathos sempre alto. Se poi si osservano o si sono osservate le partite, bisognerà ammettere che anche le gare incerte non sono state tecnicamente né tatticamente di gran livello: l’incertezza nei finali è stata data per lo più da gloriose Royal Rumbles ad ogni viaggio in lunetta sbagliato o ad ogni passaggio consegnato che finiva per terra invece che nelle giuste mani, ricordandoci che “agonismo” non fa “bellezza”, soprattutto se slegato da un preciso percorso tattico e da ben delineate capacità tecniche. Negli anni gloriosi il basket collegiale era splendido perché anche il bianchetto meno visitato dai prodigi di madre natura era un manuale di tecnica: con lo spazio giusto non sbagliava un tiro, un libero, una decisione. Oppure perché anche la squadra più scalcagnata poteva trovare, grazie al proprio coach, una strategia capace di rimbambire e battere i favoriti. Oggi non è così. Le sorprese capitano in misura non superiore a qualsiasi altro Campionato o Lega, e sulla capacità degli allenatori di incidere sarei molto dubbioso. Veniamo a questo proposito alla seconda questione in argomento.
La regola che impone ai giocatori di trascorrere in un college almeno un anno prima di poter passare pro ha confermato la sua inutilità. Un anno non è nulla, né dal punto di vista scolastico né da quello cestistico. I giocatori passano un anno di limbo, in cui possono migliorare in qualche percentuale il loro gioco e la loro istruzione, ma ormai il vero progresso cestistico, il vero lavoro di miglioramento, viene svolto dalle franchigie pro. Il coach dell’Ateneo che oggi rifornisce più di ogni altro la NBA, Calipari di Kentucky U., si è espresso così, lo scorso anno, a proposito della regola del “one and done” e in generale del lavoro che un coach universitario dovrebbe svolgere: “beh se ci pensate il fine ultimo di ogni Università è quello di preparare ogni studente in modo da fargli ottenere il posto di lavoro migliore possibile, e i nostri giocatori ottengono proprio quello”. Manager ineccepile, oltre che ottimo coach, Calipari ha posto la situazione sotto la luce migliore di una verità non discutibile. Tuttavia non parla del vero punto oscuro dell’attuale sistema: quell’anno al college non serve. Karl-Anthony Towns o Ben Simmons, così come la prossima probabile prima scelta Markelle Fultz, sarebbero stati chiamati a lavorare comunque, e così almeno il 90% dei giocatori selezionati negli ultimi 10 anni; nè sono migliorati così sensibilmente al college rispetto al loro ultimo anno di liceo. La regola era stata varata per evitare che imberbi pupazzetti arrivassero nel mare magnum degli squali professionisti, e, certo, per salvare l’istituzione dello sport di college. Tuttavia, rimanendo valido il discorso economico-istituzionale, i ragazzi di oggi sono enormemente diversi da quelli di quasi 15 anni orsono, quando la regola entrò in vigore. Thon Maker, per esempio, sta giocando da rookie coi Bucks ed ha saltato il college grazie al fatto di aver frequentato una prep school e di aver avuto una carriera scolastica divisa tra 2 continenti e 3 nazioni, rendendo impossibile negare che la sua preparazione così come il suo trascorso di vita fossero incompatibili con la vita dello sportivo professionista. La cosa era confermata dal fatto che il giovane Thon aveva messo in piedi una campagna mediatica, per spingere e motivare il “salto” del college, degna delle primarie democratiche. Non sarebbe l’unico a poterlo fare. Onestamente penso che ogni ragazzo di 16 anni oggi potrebbe. Inizieremo la prossima puntata parlando di uno degli ultimi approdati in NBA direttamente dalla high-school, Amir Johnson.