Continua la nostra analisi su cosa sia diventato il college-basket e sui mali che lo affliggono.
Ci eravamo lasciati al termine della puntata con la promessa di parlare dell’ultimo a passare pro direttamente dalla high-school: Amir Johnson. Scelto nel 2005 dai Pistons, per i quali non giocò quasi mai nei primi due anni, per poi diventare un giocatore di fine-rotazione prima di arrivare, attraverso un momentaneo passaggio a Milwaukee, ai Toronto Raptors nel 2009. Dai giorni di Toronto ho ricordi vivi di Amir: regolarmente preso in giro da coach Peterson nelle telecronache, come simbolo di quei giocatori ineluttabilmente troppo ruvidi e tecnicamente incompleti che avrebbero fatto bene a stare un paio di anni (almeno) al college. Erano, quelle prese in giro, l’esito di un pensiero dominante e forse allora esatto secondo il quale la formazione dei giocatori e degli uomini doveva passare attraverso una palestra di cui il college era un perfetto esempio. I tempi, le menti, i diciottenni sono molto cambiati. Ora AJ sta giocando il suo 12’ anno nella NBA con medie-carriera di 7.5+6.5. Non un campione, ma un giocatore solidissimo, capace di reggere da pf come da c, uno che ha affinato il proprio gioco nella NBA, senza dimenticare il fatto che, a volte, i giocatori vanno usati e stimolati, per trarne il meglio. Molti infatti si sorprendono che stia tirando al 40% da 3 (25/62), ma dimenticano che nella prima vera partita che giocò nella NBA, nel gennaio 2006, fece 6/6 dal campo compreso un 2/2 da 3, e 4/4 ai liberi. Brad Stevens ai Celtics ha solo tirato fuori una cosa che nel bagaglio di Amir c’era già. Una cosa che non necessariamente aveva bisogno della NCAA per esser sviluppata. E non si può dire che Amir sia un cattivo essere umano: a parte vincere il Titolo con Boston, il suo maggior pensiero è aiutare i rookies biancoverdi e ristrutturare, in estate, la stanza dei giochi della figlia. Quindi Johnson è cresciuto bene come giocatore e uomo anche senza la NCAA.
La questione economica sta diventando seria, tra i giocatori di basket collegiali. Sono problemi in un certo senso endemici degli USA, che però sono stati esacerbati negli ultimi tempi dalla rinnovata rigidità delle regole NCAA sul recruiting, le borse di studio, le bustarelle. Uno studio promosso di recente dalla Associazione Atleti NCAA (una sorta di Osservatorio che vigila su come gli Atenei si comportano nei confronti degli atleti di tutti gli sports a livello collegiale) ha rilevato che quasi un 80% delle famiglie degli atleti NCAA vivono a cavallo o sotto la soglia di povertà. Questo mentre la NCAA, solo per il basket, ha introitato nel 2016 un miliardo di dollari; potremmo anche ricordare che le Final4 2017, nel complesso delle 3 gare, hanno fruttato più pubblicità del Superbowl. E “lo spot per il Superbowl” è una specie di Graal, qualcosa che i creativi sperano di poter preparare come sogno della vita. Vi fornisco altri dati, da considerare nella loro qualità di “medie”, perché la situazione di un giocatore di basket NCAA è differente se gioca a Kansas oppure a Sperduto State. Mediamente un giocatore di basket collegiale riceve dalle borse di studio, dopo aver sottratto la retta dell’Ateneo, un ritorno di 732 $ con cui deve pensare alle spese correnti. Date le distanze che a volte separano il college dalla città natale, significa che molti studenti non possono tornare a casa se non a spese delle famiglie, le quali, come visto, non navigano certo nell’oro. Il tutto mentre il salario medio di un giocatore NBA, per l’anno in corso, è di circa 6.5 milioni di dollari. Riassunto: non essendo garantito che i miglioramenti del gioco e della propria essenza umana (vedi Amir Johnson, caso emblematico in quanto non si tratta di un supercampione) siano offerti solo e soltanto dall’andare al college, i giocatori NCAA “decidono” di esser parte di un movimento che grazie a loro incamera un miliardo di dollari, senza renderli partecipi in nulla di quel capitale, ma lasciando loro (al netto di bustarelle e aiutini di altra forma, che sono illegali), detratte le spese scolastiche, 8784 dollari l’anno, mentre un giocatore NBA medio guadagna più di 6 milioni all’anno. Onestamente: se voi foste Josh Jackson, andreste al college se non foste obbligati dalla regola? Ormai l’ipocrisia del sistema NCAA è giunta al punto di non ritorno, e torna in mente il racconto di Chris Webber di quando era ancora a Michigan, e si era in piena FabFive-Mania: C-Webb si era appena fatto offrire un caffè da un compagno di corso perché non aveva soldi, e passò davanti a una vetrina di un negozio di articoli sportivi, in cui la sua divisa da gioco veniva venduta a 80 dollari, la sua e quella degli altri 4 Fabs. E se ne vendevano, dice lui, non meno di 1000 al giorno solo in Michigan. I soldi andavano al brand sportivo, a Michigan U., al negozio ecc, a lui no.
Nella rpossima puntata valuteremo quanto quella che abbiamo definito “ipocrisia del sistema” incida non solo sui guadagni e sulle questioni economiche, ma anche su quelle tecniche.