Il basket, in particolare negli U.S.A., patria del nostro sport, è stato spesso fonte di ispirazione artistica e di opere molto apprezzate.
Nel cinema la pellicola certamente più popolare al grande pubblico è Space Jam. L’asso dei Bulls Michael Jordan, uno dei migliori giocatori di sempre, è il protagonista di un mix di cartoni animati e film sportivo (che non è particolarmente apprezzato dagli appassionati di basket).
La trama è piuttosto banale ed infantile: il regno dei Tunes (i famosi personaggi dei cartoon) è invaso da alieni che vogliono sequestrare Bugs Bunny e soci per metterli nel loro luna-park, per cui il Coniglio sfida gli invaders in una partita di pallacanestro, ma questi rubano il talento dei migliori giocatori del momento. In quel periodo, però, “Air” Jordan si era dato al baseball (come effettivamente era accaduto nella realtà), per cui non viene selezionato. I Tunes riescono a convincerlo ad allenarli, a giocare e vincere insieme a loro.
Il grande schermo ha frequentemente rappresentato, splendidamente, anche storie in cui trionfano sogni, rivincite sociali e sacrifici. In tal senso uno dei migliori film, in assoluto, è Hoosiers di David Anspaugh, al 13° posto tra i migliori film USA. In Italia Hoosiers è stato tradotto con “Colpo vincente”, ma in realtà è il nickname dato abitanti dello stato agricolo dell’Indiana. Magistrale il racconto televisivo rievocativo dell’avvocato-narratore Federico Buffa.
Uscito nel 1986, racconta in 115’ la storia vera della Milan High School, la più piccola delle scuole superiori ad aver vinto (nel 1954) il campionato dell’Indiana, il basket-state per antonomasia. Un’impresa storica per un film entrato nel cuore degli appassionati, tanto da essere inserito, nel 2001, nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso americano.
Norman Dale (magistralmente interpretato da Gene Hackman) è un allenatore inattivo da anni, radiato dopo una violenta lite con un suo ex giocatore durante un allenamento. Si fa convincere dal suo vecchio amico Cletus ad allenare la squadretta di una scuola di un piccolo villaggio, la Hickory high school, il cui coach era morto.
Dopo un inizio a dir poco difficile, Dale/Hackman riesce a farsi seguire dai suoi ragazzi, nonostante la diffidenza della comunità locale che vota in assemblea per cacciarlo. Carattere molto spigoloso, adotta decisioni abbastanza controverse (come quella di scegliere, come suo assistente Shooter –interpretato da un Dennis Hopper, candidato agli Oscar del 1987 come miglior attore non protagonista-, un appassionato di basket alcolizzato, padre di uno dei suoi giocatori), Coach Dale riesce a salvarsi dal taglio grazie all’attaccamento dei suoi ragazzi e la squadra (formata da soli otto giocatori, peraltro non tutti bravi) inizia a vincere, arrivando miracolosamente alla finale del campionato, vinta all’ultimo tiro (il colpo vincente, appunto) contro avversari fisicamente più attrezzati. Storica la scena della finale
Scene indimenticabili (come quella della misurazione del “pitturato” e del ferro) e musica (la colonna sonora di Jerry Goldsmith valse la nomination agli Oscar del 1987) da brividi fanno da contorno ad una tipica storia americana in cui trionfano i “buoni” e di cui si sente la mancanza in Italia.
Altro bellissima storia, descritta con il linguaggio del basket, è Glory road (il titolo italiano, improbabile, è Vincere cambia tutto), un film del 2006 di James Gartner. I Miners della Texas Western University, in maggioranza giocatori afroamericani allenati dal bianco Don Haskins (ottimamente interpretato da Josh Lucas), vinsero effettivamente il campionato universitario 1965-66 con un record di 28-1 (persero solo, di 2, a Seattle). Bobby Joe Hill ne mise 20 e tirò giù 9 rimbalzi.
Dopo tante peripezie, minacce subite e avversità sconfitte, in finale il coach dei Miners, per spezzare l’egemonia razzista in quegli anni di maccartismo, per la prima volta nella storia della pallacanestro americana, fece giocare soltanto giocatori neri contro la squadra bianca della Kentucky. Un numero 1 del ranking NCAA, condotta da Adolph Rupp (Jon Voight), vincendo per 72-65: era il 19 marzo del 1966 e da quel momento il basket universitario non sarebbe stato più lo stesso.
Nel 2006 è uscito anche Coach Carter, una pellicola dal tema sport e educazione. Narra la storia, vera, di Ken Carter (interpretato da un grande Samuel L. Jackson), allenatore di colore che ingaggiato dal liceo di Richmond per risollevare le sorti della squadra. Duro, ma pedagogo, coach Carter stipula un “contratto” con i suoi ragazzi: in mancanza di buoni voti scolastici, niente basket. Per questo sospende l’intera squadra tra le ire di tifosi, genitori dei cestisti e, persino, dei suoi colleghi insegnanti. Riesce però a farsi rispettare dai suoi giocatori (ragazzi con molti problemi che vivono nei ghetti) e coglie la vittoria con gli Oilers.
Anche un grande regista come Spike Lee si è cimentato con il basket in He got game del 1998. Lee ha utilizzato il suo sport preferito come medium di comunicazione e strumento di critica sociale.
La trama è giocata sui sentimenti del protagonista Jake (Denzell Washington), condannato a vent’anni per uxoricidio colposo, e di suo figlio diciottenne Jesus (Ray Allen). Il ragazzo è un campione di basket conteso dalle più famose università, chiamato così dal padre in onore del suo idolo Black Jesus, nickname di Earl “the Pearl” Monroe (che si laureò campione NBA con i Knicks nel 1973), di cui Lee è tifosissimo. Jesus non ha mai perdonato Jake, anche per le torture dei faticosi allenamenti a cui l’aveva costretto da bambino sul playground vicino casa. Con la promessa di uno sconto di pena, Jake ottiene sette giorni di libertà vigilata per tornare a Coney Island e convincere Jesus ad accettare una borsa di studio dalla Big State University, cara al governatore dello Stato, in cambio di uno sconto di pena. L’ultima sera, prima di rientrare nel carcere di Attica, Jake si confessa con il figlio e lo sfida in un uno-contro-uno con in palio la scelta dell’università da frequentare. Jesus vince facilmente, ma commosso dall’affetto del padre, accetta comunque di iscriversi a Big State. In un finale amaro, il direttore del carcere, però, non mantiene la parola data e non fa sconti a Jake.
Ritorno dal nulla, del 1995, protagonista un giovanissimo Leonardo Di Caprio è la riedizione cinematografica di una cult-novel di Jim Carroll degli anni Settanta: The basketball diaries. Racconta di Jim, un ragazzino newyorkese educato in una scuola cattolica, con un talento per la scrittura, che divide l’adolescenza turbolenta e le droghe con altri sbandati dell’East Side.
La storia forte a margine delle partite di basket, con allenatori che ci “provano” con i ragazzini, un amico che muore di leucemia, le droghe appunto, l’omosessualità e il riformatorio, tutto entro i sedici anni di Jim. Il film non assume mai connotazioni particolarmente torbide, ma suscita commozione ([1]).
Basta vincere è il titolo di un film del 1994, di William Friedkin (regista de L’esorcista), improvvida traduzione dell’originale Blue Chips, espressione sportiva utilizzata per indicare i giocatori delle high school con prevedibile buon rendimento sportivo immediato. Protagonisti, oltre a Nick Nolte (a suo agio nella ruolo), tanti giocatori N.B.A., tra cui Shaq e Penny Hardaway.
Il tema è la frode sportiva, trattata per la prima volta nel basket. I Dolphins, prestigiosa squadra della Western University, sono in crisi dopo anni di vittorie. Senza fuoriclasse, con la stampa che lo attacca rievocando una combine relativa a partite truccate anni prima, coach Bell (Nick Nolte), difeso solo dalla ex moglie e dal direttore sportivo, macerato tra l’onestà e la voglia di vincere, decide di scendere a compromessi nel reclutamento di giovani promesse attirate da ingaggi (come è noto, espressamente formalmente vietati nella N.C.A.A.), ragazze e scommesse.
Alla fine però Bell si “redime”: in conferenza stampa denuncia lo scandalo e rassegna le dimissioni tra lo stupore generale e l’ira dei rappresentanti della sua università.
Rebound, del 1996, diretto da Erik Lasalle, è un film toccante ispirato alla vita di Earl the Goat Manigault. Racconta la storia di un giocatore dotato di enorme talento (interpretato da Don Cheadle), rispettato e stimato anche da professionisti come Jabbar, che non riesce a sfondare per problemi di droga e finisce per dedicarsi ad allenare ragazzini difficili nei playground ad Harlem.
Per tante cose gli americani sono da biasimare, ma non si può negare che hanno un modo di raccontare lo sport che è davvero toccante. Con le storie sportive che abbiamo avuto in Italia, solo il Grande Torino e la sfida eterna Coppi-Bartali sono assurti alla gloria televisiva.
Rimanendo nel nostro orticello, siamo sicuri che l’epopea europea di Varese e Cantù, le Scarpette Rosse milanesi, o il tricolore di Caserta, in mano a scrittori e registi USA, non sarebbero diventati successi anche al botteghino?
[1] Recensioni tratte da MORANDO Laura, Luisa e Morando, Il Morandini: dizionario dei film 2001, Zanichelli, Bologna, 2000.