Dopo i Tops pubblicati questa mattina, ora è il turno dei Flops.

1- INFORTUNI. Stagione allucinante per quel che riguarda gli infortuni. L’ennesimo contrattempo al ginocchio di D-Rose ha gettato per un paio di giorni l’intera NBA nello sconforto e nello sconcerto. Per fortuna il giocatore è rientrato nei tempi previsti, ma la sua catena di stop comincia a diventare impressionante. Il piede di Durant ha di fatto reso Oklahoma City una franchigia NON da Playoffs, e non ci sono buone notizie sul fronte KD, dal momento che nessuno ha ancora detto una parola certa sulla data di rientro; OKC è stata colpita anche da un infortunio ad inizio stagione a Westbrook e da uno ad Ibaka a fine stagione: decisamente troppo per restare competitivi. Ad inizio campionato si sono fatti male seriamente due dei rookies più attesi: Julius Randle dei Lakers alla primissima partita e Jabari Parker dei Bucks, seconda scelta assoluta, dopo poche partite in cui stava già giocando da Star. Entrambi hanno perso la stagione. Anche Aaron Gordon, scelta numero 4 al Draft, ha di fatto visto sfumare fin dall’inizio il suo primo anno da pro: è rientrato, ma l’apprendistato e la forma ormai erano in ritardo, lo aspettiamo con fiducia il prossimo anno. DeRozan dei Raptors è stato fuori a lungo, riducendo ai minimi termini le energie di Lowry e Lou Williams e togliendo Toronto dalla lotta per il secondo posto ad Est. Kobe Bryant, tornato dopo lo stop per la rottura del tendine d’achille, ha fatto in tempo a superare Jordan nella classifica marcatori ogni tempo della NBA, e poi si è dovuto fermare di nuovo per un problema alla capsula rotatoria della spalla. Anthony Davis, un altro appartenente all’Olimpo NBA, è stato fuori a singhiozzo per analoghi problemi alla spalla. La fila è lunga, e potrebbe continuare con Kawhi Leonard e Blake Griffin, ma quel che conta è che la frequenza di infortuni gravi, con assenze forzate di molto superiori alla settimana, è diventato un problema che la NBA ha deciso di affrontare. Son stati commissionati studi sull’incidenza dei voli nel poter causare infortuni o nel ritardare e rendere complicati e a rischio i rientri; si sta valutando come preoccupante il fatto che problemi seri colpiscano veterani come rookies, e che a patologie purtroppo classiche come quelle del ginocchio si stiano affiancando, per serietà e frequenza i problemi alla cuffia rotatoria della spalla e al tendine di Achille. Insomma la Associazione non sta con le mani in mano, e sta valutando di accorciare il calendario o di modificarlo per far calare di numero i viaggi, o almeno renderli meno frequenti.

2- TANKING. Per chi ricorda la NBA della prima metà anni ’80 il rendimento di quest’anno di Philadelphia o New York, Minnesota o Lakers, non è il peggio mai visto: i San Diego Clippers o i Cavaliers di allora erano molto peggiori. E’ però un fatto che le quattro franchigie ricordate, insieme a Sacramento ed Orlando, abbiano fatto proprio poco per poter avere un numero di W maggiore a fine stagione. Il costume di “stare bassi” nella colonna delle vittorie era, fino a pochi anni fa, qualcosa di praticato ma indicibile, da farsi con estrema circospezione salvando la dignità sportiva delle partite. Quest’anno al punto “dignità sportiva” abbiamo toccato il fondo. I Knicks in particolare hanno fatto davvero schifo, tanto da far dimenticare alla velenosa stampa nuovaiorchese il bersaglio preferito Bargnani per dirigersi verso i nuovi pupazzetti per spilli, Phil Jackson e coach D-Fish. In merito al problema del tanking il fuoco della questione non è perdere apposta sul campo, nessun giocatore lo farebbe: il punto sta nelle mosse del front office delle varie franchigie che si adoperano per tenere il più basso possibile il monte salari, il più basso possibile il record finale in modo da avere la possibilità di scegliere meglio al Draft o di avere più soldi per firmare free agents di valore. L’intenzionalità di queste scelte “a perdere” è ciò che la NBA ha intenzione di frenare, modificando in senso punitivo il meccanismo della Lottery e quindi dell’ordine di scelta al Draft. Al momento una delle idee più equilibrate, e dunque meno traumatiche, per riformare tale meccanismo è quello di fissare una distanza massima tra le W della peggiore e quelle della 17′ squadra, la prima eliminata dai playoffs: se la 30′ ha troppo sconfitte in più della 17′ tutte o una parte delle possibilità percentuali (le famose palline nell’urna) di aggiudicarsi un buon numero progressivo al Draft vengono cancellate e ridistribuite tra le altre franchigie non partecipanti alla postseason. Forse non dal prossimo anno, ma state certi che la NBA provvederà.

3- TURNOVER. Altro terreno di frizione tra la Associazione e le Franchigie. Molti, troppi allenatori, hanno seguito l’esempio di Popovich, concedendo ampi riposi alle prorpie stelle in coincidenza di partite reputate accessibili. Ne sono scaturite, in particolare ad Est e in particolare sul finire di stagione, alcune pesanti critiche nei confronti degli Hawks, per esempio, consegnatisi un paio di volte ad avversari meno forti a causa della contemporanea assenza del quintetto titolare. Questo terreno è molto delicato: la prevenzione deglii infortuni (di cui il riposo è senza dubbio un indiscutibile cardine) è uno dei cavalli di battaglia della NBA, nonchè una sua primaria esigenza per tenere in piedi lo spettacolo con gli uomini migliori in campo. Quindi, se da un lato il riposo anche ripetuto che gli Spurs concedono a Duncan è positivo per avere Timoteo a lungo sulle tavole e fresco per la post-season, dall’altro lato potrebbe portare gli Spurs a favorire un’avversaria piuttosto che un’altra. In uno dei famigerati casi creati dagli Hawks, Budenholzer ha di fatto agevolato una W di Charlotte, W che alla fine si è rivelata inutile, ma avrebbe invece potuto essere determinante. Difficile intervenire in questo contesto, da parte della NBA, ma di sicuro se certi corposi turnovers avvenissero in gare davvero non importanti sarebbe meglio.