L’Euroleague 2014, la Coppa dei Campioni del basket, si assegna questa domenica alle 20 al Forum di Assago. La finalissima fra Real Madrid e Maccabi ha smentito la regular season e i playoff ma non le mie previsioni suffragate da ragionamenti tecnici: nel crollo finale nessuna responsabilità per Teodosic, chiedo venia per avergli dato del perdente nelle partite ad alta tensione, lui non c’entra e forse nemmeno Khryapa per la palla persa costata il canestro della sconfitta. Il Cska dopo aver dominato ha avuto paura di vincere, qualche cambio – ad esempio il doppio play – è stato come un giro di manopola al relais, ha generato un atteggiamento difensivo e non una grande difesa, che sono due cose diverse. Comunque la storia degli ultimi anni della Coppa dei Campioni ha regalato molte partite del genere, la più famosa il crollo del Cska avanti di 19 punti due anni fa con l’Olimpiacos e battuta da un canestro in avvicinamento di Printezi.
Questa finale premierà l’antica nobiltà e anche due squadre che hanno come araldica il gioco in campo aperto. Il vecchio inimitabile contropiede della scuola “scarpette rosse” e quello superbo della corale Ignis. Non il “corri e tira” attuale della Spaghetti League dopo gli anni del noioso e ripetitivo “Pick and Roll”, un attacco asimmetrico, dove una parte di giocatori è quasi passiva e va bene se il coach avversario non sa leggere il gioco, altrimenti è un boomerang. In ogni caso, le due squadre sanno anche difendere.
Il basco Pablo Laso Biurrù è arrivato al Real quando non è andato allo sconto il forte investimento del club sul nome di Messina, arrivato con la fama di un coach NBA ma in seguito contestatissimo per lo stile di gioco micragnoso lontano dal marchio di fabbrica e la scelta di alcuni giocatori costosi. Se n’è andato stizzito a metà stagione dopo una brutta sconfitta casalinga con Siena, una lavata di capo al serbo Velickovic in diretta Tv, e mummificando giocatori risorti poi da altre parti, come Kaukenas e Lavrinovic, lasciando al fido Lele Molin la squadra che ha salvato la stagione tornando nelle Final Four.
Con Pablo Laso, alle prime armi come allenatore e in questa sfida all’esame di maturità, ha riacquistato il marchio di fabbrica investendo 10 milioni di euro solo per far tornare dalla NBA Rudy Fernandez, dopo che l’anno prima era già rientrato Sergio Rodriguez proclamato il MVP della stagione, giocatore che non vale Calderon come cuore e spinta, apparentemente freddo ma redditizio e adatto per l’alchimia di squadra e alla sua maggior identità spagnola rispetto al patchwork di Barcellona.
Fondamentale anche il lancio e la crescita di Nicola Mirotic, un montenegrino svezzato giovanissimo dal club che adesso prenderà la strada per i Bulls. In ogni caso, siccome le squadre europee anche se vincenti sono sempre imperfette, meno dotate di quelle NBA, ritengo che la bravura di un coach sia capire questi difetti ed evitare di accentuarli. Paradossalmente anche la ricerca del pivottone straniero che ha portato al sacrificio di Ante Tomic e a qualche abbaglio esotico ha finito per essere utile e rivalutare la generosità e l’esperienza di Felipe Reyes, giocatore antico ma adattissimo, che non ha mai creato attese smisurate e quindi ha permesso alla squadra di giocare secondo il suo stile, e non snaturata.
Anche se il Maccabi ha fatto già due miracoli a Milano, il terzo è più difficile: questo Real è sulla strada per chiudere e iniziare al tempo stesso un ciclo, inoltre fra pochi mesi la Palaza de Toros di Madrid sarà il teatro della World Cup – così si chiamerà il mondiale new format – e quindi un successo può servire moltissimo a promuovere la rassegna. Anche se da 19 anni non l’hanno più vinta, gli spagnoli vantano un record di 8 titoli e l’anno scorso hanno giocato la finale. Maccabi a sua volta ha vinto ben 5 titoli (e il secondo col paisà Rudy D’Amico, oggi italiano e fiorentino d’adozione).
Nel club dei plurititolati dove spicca anche il Panathinaikos del dittatore serbo Zeljko Obradovic, giusto ricordare il contributo italiano che ha spostato definitivamente il baricentro dall’est all’ovest. Questo con i due momenti di Milano e soprattutto l’epopea varesina, 10 finali consecutive e 5 notti magiche, e lo scacco matto ai sovietici e al Real Madrid, padroni del trofeo per fino ai primi anni settanta anche se il vero primato italiano è quello di trofei vinti con più formazioni. Non però quella di Siena la grande assente che perderà pure il diritto di essere in Europa se in mancanza di una ricapitalizzazione di un bel pacco di milioni il 10 giugno il tribunale fallimentare dichiarerà fallita. Finale quasi scontato con quella bufera scatenata con l’indagine Time Out che ha squadernato cose mai viste nel basket, cose dure da accettare come “organizzazione criminale”, “fatture false e anche senza prestazioni”, “disegno criminale a scopo di arricchimento personale”, ipotesi di “bancarotta fraudolenta”, bilanci “taroccati”, “false comunicazioni di società”.
Comincia dal duello fra i due allenatori questa finale iconica, la punta di due politiche sportive diverse: il primo grande club metropolitano capace di battere la nazionale Urss trasferita in blocco alla squadra dell’Armata Rossa (Cska op Ceska) e successivamente battuta dal topolino italiano, la Varese dai 50 mila abitanti simbolo però della rinascita economica italiana grazie a Giovanni Borghi, e la squadra dell’orgoglio nazionale israeliano con milioni di tifosi in tutto il mondo, per la quale il parquet un’estensione del proprio territorio fin dai tempi in cui ho capito lo spirito avendo la fortuna di stringere la mano e intervistare Moshe Dayan per la Gazzetta dello Sport.
Fuori Messina (4 titoli) e Pascual (1 titolo) sarà il primo trofeo per il coach vincente. Il basco Pablo Laso Biurrù, classe ’67, 61 volte nazionale, 654 partite, il n.1 nei recuperi e negli assist della Liga che a fine carriera ha giocato anche a Trieste, l’ex play che dal ’95 al’97 ha vinto una coppa Saporta e una Coppa del Rey quando il Real non aveva attenzioni che per il calcio e aveva quasi dimenticato il basket. Un giocatore di testa e cuore e contropiede, forse non un grandissimo ma un esempio. E’ stato bravo a riportare l’antico spirito di un tempo nello spogliatoio e in campo, a eliminare il vocabolo preferito del predecessore, perfezionismo, e ridato vigore al filone degli ex giocatori sulla panchina che hanno visto assurgere Zeljko Obradovic, il massimo del buon senso, del sacrificio ma anche dell’armonia del basket, con le sue 8 coppe con 4 club, a modello di saggio empirismo e buon spettacolo, con grande scorno dei destrutturatori e dei copisti.
Anche David Blatt è un ex giocatore, ma laureato a Princeton, cultura umanistica e sociale, passione per lo sport, spirito di adattamento senza pari, come Peterson il quale però si è adagiato sul concetto italiano di stare sempre col più forte e di non contraddire nessuno e vivrai felice e contento.
Se il pigmalione di Dan è stato l’avvocato Porelli, quello di David Blatt, classe ’59, è stato Israele, la terra promessa dove ha abbracciato la fede ebraica, anche se è nato a Louisville, la città del Kentucky dei cavalli e del basket. Arrivato in Israele ha giocato per 11 anni in squadre diverse, un allenatore in campo che poi ha servito il Maccabi, prima vice di Pini Gherson, il coach di tre successi, poi in prima persona, quindi la scelta del g.m. Gherardini di portarlo alla Benetton dove è stato per due stagioni, ha conquistato uno scudetto, una coppia Italia e una Supercoppa che, se non sbaglio, sono gli ultimi titoli del club. Poi globetrotter per l’Europa, l’Efes, la Dinamo San Pietroburgo e quella di Mosca, Salonicco, la nazionale russa riportata al titolo europeo dopo gli anni bui, e al bronzo olimpico, quindi il ritorno al Maccabi, con l’aut aut del puntiglioso presidente, o con noi a tempo pieno o niente.
David con i suoi occhietti ravvicinati, la capacità d’affabulazione instancabile di un levita, la grande disponibilità, la logica, la capacità di dissimulazione, di smerigliare ogni problema a una piacevole rotondità ha scelto Israele in un momento in cui il club non poteva permettersi grandi budget. Ma vincere con Israele come americano, il primo alleato, porta benefici e nel caso di vittoria si parla di una panchina sicura nella NBA. Potrebbe essere San Antonio se lascia Gregg Popovich, ma ce ne sarebbe anche un’altra.
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