Allen Iverson (insieme a Shaq e Yao Ming) è stato introdotto nella Hall of Fame del basket.

Quando Allen Iverson entrò nella NBA era l’autunno del 1996, e io ero ormai grande, avevo 26 anni e più o meno all’epoca in cui a Cleveland si celebrava l’ASG 1997 (MVP Glen Rice, tiro da 3 per Steve Kerr e dunk contest per Kobe) aprivo partita IVA. Ero un uomo a tutti gli effetti, e pur essendo totalmente divorato dalla passione per il basket e la NBA, ero già entrato nella fase di “conoscitore del gioco” e non credevo che avrei mai più potuto commuovermi ed innamorarmi come mi era capitato per Larry Bird e Julius Erving, come mi era capitato nella fulgida adolescenza, coincisa col fiorire delle telecronache NBA in Italia. Invece..fui preso di mira da Cupido e incontrai Allen Iverson. Sgombriamo il campo da chi ancora lo dice alto 183 cm. Era 178 cm per 75 (generosamente concessi) chili. Uno dei suoi soprannomi, A.I., non lo rappresentava affatto, perché Iverson non era Artificiale e nemmeno dotato del potenziale di un Nobel. Ma era vero, dannato, e inspiegabile come Charlie Parker o Jimi Hendrix. Il basket che lui scolpiva nell’aria delle Arene era impossibile poesia, fragile quanto lo era lui. Era The Answer perché in effetti solo lui poteva rispondere alle domande che sorgevano mentre lo vedevi giocare: ma come fa?…ma come ha fatto?….ma uno di 178×75 come può?….da dove ha tirato, da dove è passato, ma la palla dove stava? Era lui la Risposta, solo lui. Idem per le altre domande: ma se tirasse un po meno?…se si allenasse di più?….Se cambiasse giro di amici? Domande inutili, perché si scontravano contro la inevitabile Risposta: è lui, e se si allenasse non sarebbe lui. A proposito di allenamenti: la più bella intervista di sempre ad un giocatore NBA è sua. Un involontario, quanto pieno di talento musicale e scenico, monologo sul NON allenarsi, da lui improvvisato all’inizio della stagione seguente alle Finals perse contro i Lakers nel 2001. Non andava più (di nuovo) molto d’accordo con Larry Brown, e a una domanda sui motivi e le conseguenze dei parecchi allenamenti saltati, Iverson rispose con una tirata degna di Ornette Coleman, in cui usò in meno di 3 minuti per 23 VOLTE la parola “allenamenti”, rinforzata da 5 “allenarsi”. Il senso era: non è vero che ho saltato tutti quegli A. Avrò saltato uno o due A. Ma, poi, man…davvero stiamo parlando di A.??? No, perchè io parlo di partite, di spendere tutto me stesso ogni singola partita, io sono tutto per il gioco, tutto per i fans…I’m straight to the game, straight there for the people…..quindi, man, davvero mi vuoi parlare di A?? Capiamoci ok?, perché io ti sto parlando di Hall of Fame. Eccoci, arrivati. Arrivato alla Hall of Fame, che non è un museo delle cere tristanzuolo, per quelli di là dall’Oceano, è uno status, un riconoscimento e un bersaglio per la carriera. E’ il riconoscimento della grandezza. A proposito della qual grandezza, sì, sì..ok: nessun titolo, una vita quasi buttata ma ora per fortuna (e per ora..) recuperata, ma basta, please – ora elevate il vostro spirito. E andate a segnare un jump-hook in faccia a Shaq e col suo gomito in faccia vostra, che siete la metà esatta. Andate a scolpire basket come Alì scolpiva boxe, non solo atleta ma poeta, musicista. Persino pittore, a guardare come il suo Step-Over, la sua passeggiata su Tyronn Lue, sia diventata icona di un’epoca e di un modo di intendere il basket, la competizione. Andate a prendere qualche video dal Tubo, ricordatevi che siete nel 1996-2002, e osservate quanti dei movimenti delle guardie di oggi siano figli di Allen Iverson. Lui che ha scatole di Timberland (alcune senza scarpe ma con migliaia di dollari dentro) che ancora saltano fuori dalle case in cui ha vissuto, Bentley dimenticate in parcheggi di aeroporti di tutti gli States (più comodo ricomprarla che cercarla se smarrivi il ticket del parcheggio), ha anche due bellissime bambine e tanti altri figli: le guardie di oggi. Se volete terminare bene questa lettura, prendete poi dal Tubo o da un vinile/cd “Tomorrow is the question”, Ornette Coleman.