“Chissà come sarà di persona”. L’auto quesito più banale del mondo, mi rendo conto e me ne vergogno anche un po’, ma è quello che mi frulla in testa da quando l’idea di intervistare Federico Buffa si è evoluta dallo stadio di folle sogno a quello di concreta possibilità.

Alessandra Rucco intervista Federico Buffa

Alessandra Rucco intervista Federico Buffa

Ancora non riesco a credere che di qui a pochi minuti l’uomo che ha raccontato “His Airness”, al secolo Michael Jeffrey Jordan, in modo da aggricciare la pelle di qualsiasi appassionato di basket del pianeta, sarà seduto qui di fronte a me a rispondere alle mie domande.

“Ti basta un quarto d’ora?”, mi fa appena arriva.

Panico.

“Farò il possibile”, abbozzo.

Nelle mie mani un piccolo registratore ed i fogli con un numero improponibile di domande, di fronte a me l’Avvocato Federico Buffa.

Cominciamo.

PRIMO QUARTO: GLI INIZI E L’AMERICA

Partiamo dagli albori. Federico Buffa bambino: in che famiglia sei cresciuto e cosa sognavi di fare da grande?

Sono cresciuto in una famiglia medio-borghese, con due genitori medici che si erano conosciuti all’università. Lei veniva da una famiglia ricca del sud, poi fallita, lui da una famiglia cattolica genovese con 13 fratelli di cui era il quarto o il quinto. Due così non dovrebbero mai sposarsi in un mondo normale – infatti la famiglia di una al referendum del 2 Giugno votò monarchia, l’altra repubblica – però nell’Italia di allora poteva succedere che un giovane così potesse conquistare una donna dalle caratteristiche di mia madre (che secondo me non aspettava l’ora), e hanno avuto due figli di cui io sono il primogenito e l’unico non medico, perché mia sorella è diventata un medico e io no.

E tu da piccolo cosa sognavi di fare da grande?

Beh, si oscilla… un po’ il calciatore, poi… le cose da bambino degli anni ’60… (schiocca le dita): l’attore!

E poi hai fatto Giurisprudenza… come mai?

Beh, perché comunque mio padre, che poi si sarebbe anche divertito, visto che era grande appassionato di teatro, di cinema, però proprio l’attore… era difficile dirglielo così. In quei casi lì vanno un po’ aggirati e poi puntualmente vai a fare quello che vuoi.

In effetti hai poi fatto poi qualcosa che non è proprio l’attore, ma ci si avvicina molto.

Molto vicino. Alla fine sto facendo una cosa che, se me l’avessero detto prima, avrei trasecolato dalla gioia. Avrei detto “ma davvero? Dai, non ci credo…”

La tua passione per l’America e lo sport americano da cosa nasce?

Quella è una cosa che ha a che fare col basket. All’età di 13-14 anni il basket ha preso il sopravvento sul calcio, ma proprio… davanti alle mura di Damasco, non saprei dire come… C’è un giocatore che arriva in Italia nel 1972 e viene a giocare per l’altra squadra di Milano, non l’Olimpia, ma la pallacanestro Milano che all’epoca era sponsorizzata Mobilquattro. Si chiamava Jura, bianco del Nebraska. Io vado a vederlo una domenica d’autunno del 1972 ed è una folgorazione, tipo “io voglio vedere giocare questo giocatore per sempre!”. Ci sono dei giocatori che ti obbligano magneticamente a dire “se lui gioca questo sport allora io devo vedere questo sport”.

E del mondo americano cos’è che ti affascina più di tutto?

Considera che proprio di recente ho notato dai timbri del passaporto che siamo sulle 115 volte che sono stato negli States. Nella mia testa io in realtà non sono più così orientato lì, vorrei indirizzare la seconda metà della mia vita più verso l’Oriente, però mi accorgo che continuo a finirci e ogni volta che vado torno meglio di quando sono partito. Riesco ad assorbire un po’ dell’energia impressionante che generano loro, l’energia di un paese che continua ad avere una grande capacità di rinnovarsi senza perdere l’origine, capacità che credo non esista da nessun’altra parte, nemmeno in Giappone.

To be continued… (Nel secondo quarto Il rapporto con il basket)