Sono 44 i giocatori che dalla high-school sono passati direttamente nella NBA.

La moda prese piede nei nineties: fino al 1989, infatti, anno dell’ingresso di Shawn Kemp, erano stati solo 4. Di essi, 43 sono di colore, e questo dice molto sul motivo per cui i ragazzini facevano il salto: provenivano quasi sempre da situazioni di indigenza assoluta. Non vale certo per tutti, ad esempio non per Kobe Bryant, ma molti di loro passarono professionista proprio perché in un college non sarebbero mai riusciti a andare, o, come Shawn Kemp, a restare. Kemp fu buttato fuori da Kentucky prima di giocare un solo minuto perché aveva rubato e rivenduto a un banco di pegni la collana d’oro di un compagno di squadra. L’ultimo è stato Amir Johnson, il primo fu Reggie Harding, uno che, citando Ibra, non riuscì mai a far uscire il ghetto da dentro di sé. Carriera tra 1962 e ’68, un criminale prestato alla NBA, morto sparato nel 1972 ad un incrocio a Detroit dove giocò e dove era nato. Pistola sempre nella borsa, minacciò di morte in diretta tv l’allora GM dei Pacers e tra le tante accuse fronteggiate, emersa in una biografia postuma del manager del gruppo musicale, anche quella di aver stuprato una delle Supremes, Flora Ballard nel 1960. Harding era un centro, e centri od ali forti sono, curiosamente, ben 25 dei 44: il più forte centro puro rimane il secondo ad aver saltato il college, Moses Malone. I primi due, Harding e Malone, dovettero attendere prima di poter siglare un contratto e giocare: la NBA e la NCAA cercavano di opporsi alla pratica che poi accettarono e quindi dal 2005 mimetizzarono con la regola sciocca del One and Done. Harding dovette passare attraverso un secondo Draft, Malone fu scelto nel ’74 ma potè giocare solo dal ’76. Ovviamente, nell’attesa, furono  in qualche modo pagati, ma non ufficialmente.

Un quintetto Ideale potrebbe essere il seguente: Kobe-McGrady-LeBron-Garnett-Malone, lasciando fuori personaggi come Lou Williams, Shawn Kemp, Dwight Howard, Shaun Livingston, Amar’e Stoudemire; la media di talento e di successo è alta fra i 44. Ci sono stati però pacchi imbarazzanti, qualcuno causò delusione enorme, e problemi a quelli che li avevano scelti. Ne ho selezionati 3, fra cui anche l’unico bianco: Robert Swift. Come gli altri due si tratta di un centro, scelto col 12 assoluto nel 2004 dai Sonics. Il talento che si credeva avesse non si rivelò mai, la situazione fu peggiorata dal fatto che fu sempre ritardato da infortuni: solo 16 gare nel rookie-year, solo 47 nel secondo e poi un doppio infortunio al crociato, prima dx poi sx. Sembrava aver trovato una buona chance in Giappone, ma era l’anno dello tsunami e smise di giocare. E’ tornato al basket nella terza serie spagnola nel 2018, dove giocava ancora prima del Covid19, a Gijon. Assai più rumoroso fu il flop di Kwame Brown, diventato barzelletta sia per l’importanza delle squadre in cui ha giocato, sia per la tenacia con cui i suoi estimatori lo difendevano al di là di ogni logica. Innamorati numero uno del potenziale mai espresso da Kwame? Nientemeno che Michael Jordan, che lo scelse come Numero Uno Assoluto al Draft del 2001, e Kobe Bryant, che lo difese contro stampa e pubblico durante i quasi 3 anni in cui KB giocò nei Lakers. A dispetto di un discreto anno solare 2006 (fine della stagione ’05, inizio della ’07) resta una delle peggiori scelte mai fatte registrare nella storia del Draft.  Simile destino anche per il prossimo “bust”: Eddie Curry. Simile anche per l’ostinazione con cui non si volle credere/ammettere che era un gran tristo. Gioca ancora in Cina, almeno giocava prima del virus, e a differenza degli altri due qualche lampo vero lo ha avuto. Scelto nel 2001 come Quarto Assoluto dai Bulls, nel 2002/03 capeggiò, su un numero non altissimo di tiri ma sufficiente ad entrare nelle stats, la NBA per % di tiro (58.5%) e fu il primo Bull a capeggiare una qualsiasi categoria dai tempi di Jordan. Ha anche vinto un Anello da comprimario con gli Heat 2012, ma la sua carriera naufragò quando passò ai Knicks nel 2005, diventando uno dei simboli più evidenti (e odiati dai fans) della serie di corbellerie della dirigenza di NY negli ultimi 20 anni sotto il detestato e detestabile proprietario James Dolan. Rallentato anche da problemi di aritmia, la cui gravità il giocatore stesso non ha mai voluto testare fino in fondo, la carriera di Curry è stata all’insegna dell’indolenza e dell’imbarazzo. Resta epica la risposta del suo allora coach Scott Skyles (uno che non allena più causa lingua eccessivamente tagliente e atteggiamento eccessivamente da US Marine): “Coach, cosa manca a Curry per essere un grande rimbalzista?”. “Saltare”.