QUICKEN LOANS ARENA, CLEVELAND. GOLDEN STATE WARRIORS 90 – CLEVELAND CAVALIERS 120

I Cleveland Cavs risorgono dalle loro nefandezze individuali e di squadra e si aggiudicano nettamente Gara3. Affrontiamo per capitoli quel che è accaduto stanotte, perchè come sempre una partita NBA (a maggior ragione una delle Finals) è un romanzo denso e bellissimo.
DEDICA E INCIPIT. La dedica si compie sul grande tabellone cubico con le immagini di Mohammed Alì, e un momento di silenzio in suo onore e grato ricordo. E l’inizio è da brividi, perchè una simpatica latina di nome Jessica Ruiz invita il pubblico dell’arena ad accompagnarla nel cantare l’Inno. La voce solitaria di Jessica dura le prime 10 parole, poi il pubblico unito continua riempiendo di brividi l’inizio di questa Gara3. Un messaggio chiaro anche alla sqaudra: la città (che nello sport pro moderno non ha MAI vinto nulla) è tutta con i ragazzi.
LA POLITICA. La NBA ha molti meriti, è uno spettacolo ineguagliato e ha anche tante iniziative benefiche. Ma non dimentica mai the money. Le Finals sono il culmine del “prodotto” NBA, e se fanno schifo è un problema. Ecco perchè, senza forzare, senza scandali, senza pacchianerie, il primo quarto dei Cavs inizia col sottofondo di With a Little Help from my Friends, laddove i friends sono i grigi, che volgono tutte verso i Cavs le prime 10 chiamate (o non chiamate) dubbie, definendo un ambiente decisamente non propizio per gli Warriors. La prova è che questo atteggiamento cambierà non appena il lasciar fare porterà a un infortunio, quello che condurrà Klay negli spogliatoi verso la metà del secondo quarto.
LA DIFESA. Certo, l’aiuto bisogna meritarlo, e la difesa Cavs è totalmente diversa dalle prime due gare alla Oracle. Gli uomini di Lue evitano di chiamare “cambio” ad ogni respiro dell’attacco avversario, si prendono responsabilità personali nel contenere la palla, e portano a termine moltissime di queste missioni. La partenza è 9-0, poi 20-8, e nè Klay nè Steph riescono ad accendersi. Sia Curry che Thompson segneranno dal campo per la prima volta dopo la metà del secondo quarto. Dall’altra parte, Bogut non funziona come in California: l’Australiano è lento, o, più spesso, assente nelle chiusure difensive, e dopo l’ennesimo misfatto sarà panchinato da Kerr ancora prima della metà del primo quarto. Alla ripartenza del terzo quarto il problema si riproporrà quasi identico: Bogut sarà meno assente e meno in ritardo, ma falloso, e ri-panchinato per totalizzare, alla fine della gara, -21 di plus/minus in soli 12 minuti. Un altro in difficoltà difensiva è Steph. A parte i 3 falli raggiunti ben prima di metà gara, il suo vero problema è stato esser il bersaglio costante dei Cavs. Attaccato sempre e a prescindere. Se difendeva su Irving, Kyrie lo puntava e superava quasi sempre (16pti nel primo quarto a segnare subito la gara, 30-4-8 alla fine), se la palla era in mano ad un altro Cavaliere, era l’uomo difeso da Curry ad andare a bloccare per quell’uomo, in modo da mettere sempre Steph sotto pressione; non era finita, perchè, se nessuna delle due opzioni precedenti aveva luogo, allora l’uomo guardato da Steph si metteva in post-basso o veniva messo in condizioni di Isolation e aspettava di giocare contro Curry, rendendo i Cavs sicuri di giocare sempre con un vantaggio fisico sul figlio di Dell. Emblematico in questo senso un paniere di JR Smith (20+4 con 3 rec, finalmente si è accorto di doverle giocare, queste Finals..) che, in Iso vs Steph, lo ha affrontato per 5 sec tentando ogni tipo di palleggio possibile per superarlo, salvo poi ricordarsi che era sufficiente tirargli sulla testa da 5 metri: ovvio canestro, e molti pensieri alla scena scimitarra-scimitarra-scimitarra-pistola di Indiana Jones.
L’ATTACCO. Oltre alla finalmente trovata aggressività e responsabilità personale in difesa, il maggior merito dei Cavs è stato quello di rendersi conto di NON essere i Golden State Warriors. I Cavs non possono giocare la “pallacanestro totale” degli Warriors, che fluisce instancabile su tutta la lunghezza del campo. Non ancora, almeno: non hanno tutti gli uomini per farlo, e, se ci provano, viene subito loro ricordato che esiste una differenza 30-5 nei mesi di pratica di quel sistema. Sono però ampiamente attrezzati per giocare una pallacanestro che potremmo chiamare di “metà campo veloce”: esercizio per nulla facile, in cui il ritmo deve essere sapientemente calibrato; infatti, provenendo da mesi o (per alcuni giocatori, LBJ compreso) anni di gioco slow pace, l’errore che è sempre in agguato per Cleveland è quello di addormentare troppo la palla e il cronometro. Il ritmo ideale di Cleveland è quello in cui Kyrie muove la palla e gestisce come prima opzione il proprio 1vs1: le rotazioni create da Irving (come accadeva con facilità quando Kyrie capitanava Team USA sotto Coach-K agli ultimi Mondiali) aprono spazi ai compagni; se non accade, allora entra in azione il fattore-LBJ (32-11-6 stanotte). Nell’attacco ideale di Cleveland, James ha poco la palla in mano e molti tiri; nell’attacco kamikaze di Cleveland, James ha molto la palla in mano e pochi tiri (spesso dal nefasto mid-range) perchè il tempo viene sprecato nelle inutili lungaggini della Iso del Prescelto. Il momento-kamikaze dei Cavs è arrivato nel secondo quarto, quando, portati sulle spalle da una fiammata da 9 punti di Klay, gli Warriors in versione Death-Squad (ma senza Steph: Barbosa-Klay-Iggy-Barnes-Green), hanno tagliato i 16 di svantaggio del primo quarto fino a 7: in quel frangente, dopo il 4/4 del primo quarto, LBJ è andato 0/8, incupito in forzature e proteste per contatti pretesi ma mai davvero subìti. Oltre a subire la difesa dei Cavs, GS non infilava una vasca: nei primi 3 quarti (gli unici che han contato) avevano, per esempio il 23% da 3. La vera preoccupazione ormai per l’attacco di Kerr, però, deve essere questa: nè Klay nè Steph, in 3 gare, son riusciti a andare a 20+. In 3 gare il loro apporto combinato è di 84 punti, cifra che di solito mettono insieme in meno di una gara e mezzo. Certo qualcosa della difesa dei Cavs deve funzionare bene contro i Dynamic Duos, ricordando come anche Lowry-DeRozan abbian faticato enormemente nella Finale della Eastern.
GLI EROI NASCOSTI. Secondo noi per Golden State Harrison Barnes, che ha tenuto a galla gli Warriors fino alla ricordata fiammata di Klay nel secondo quarto, che aveva illuso i Californiani. Per il prodotto di Chapel Hill 18-8-3 con 7/11, e probabilmente l’unico da salvare per i gialloblù. Nei Cavs, invece, scegliamo senza dubbio Richard Jefferson. Sappiamo di fare un torto enorme a TTT (14+13), ma l’ex Nets era l’uomo che andava a rimpiazzare in quintetto l’assente (commozione cerebrale, protocollo per il ritorno in atto) Love, e il suo inizio folgorante (7pti con 3/3 dei primi 11 dei Cavs) ci fanno scegliere il superveterano.
MO’ BETTER BLUES. In uno dei suoi tanti capolavori, Spike Lee faceva dire a Denzel Washington: “What the world needs now…is NOT another love song”. Mettete una maiuscola al punto giusto e avrete la parte ironica e un po’ triste del romanzo di Gara3. Vogliamolo ammettere o no, i Cavs giocano molto meglio senza Kevin Love. E, contemporaneamente, Kevin Love forse non è proprio a quel livello di Superstar cui tutti pensavano fosse. Quasi tutti. Il suo rientro è probabile ma non certo, perchè il protocollo di rientro dopo una commozione cerebrale è molto complesso, e, ad aumentare le cautele, va aggiunto che Richard Parker e Steve Spiro, i due capi del medical staff dei Cavs, sono stati tra i più attivi nel creare quel protocollo.
TITOLI DI CODA. Beh i titoli di coda, obbligatori in caso di W di Golden State, non ci sono stati. Ora i Cavs sanno che, comunque vada la prossima, torneranno alla Oracle. Il rientro ipotizzabile di Love andrà in ogni caso, ironie a parte, digerito. L’atteggiamento dei Cavs andrà confermato. E non è detto che le difficoltà degli Splash Bros si prolunghino, anche se dopo 3 gare ci sono prove sufficienti per covare qualche preoccupazione da parte di Kerr.
Infine, dopo il ricordo a Mohammed Alì in apertura, un ricordo, in chiusura, ad un giocatore scomparso. Due giorni fa si è spento, per un attacco cardiaco, Sean Rooks: ora assistente ai Sixers, ha avuto una disceta carriera da back-up center nella NBA, ed era stato, per un anno, compagno di Steve Kerr ad Arizona U.